Cosco 1
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Calcio

Vincere o perdere: importante è farlo a testa alta

Tra fischi e capi chini, c'è un Cosco dal cuore onoratamente infranto

Passare dalla gloria al disonore basta poco quando si ha a che fare con i risultati. "Vincere", "perdere" due verbi dal peso specifico tremendamente pesante: meritatamente o immeritatamente poco importa all'opinione pubblica. I vincenti si godono il successo, ai perdenti rimangono il rammarico, i rimpianti. Vincere o perdere rappresenta l'esatta contraddizione che hanno in sé il buio e la luce. Il caso ha voluto che ieri al Degli Ulivi il paragone sia diventato tanto concreto da far rabbrividire. Lo spicchio biancorosso illuminato da un rassicurante sole d'inizio estate; al centro del campo, un gruppetto di uomini in azzurro nell'ombra, l'oscurità non solo nel più concreto dei significati, ma un'oscurità avvolta dalla rabbia, dai fischi e da un coro «Vergognatevi, vergognatevi» talmente forte da spezzare il cuore al più solido "uomo di latta" e da far chinare il capo anche al più orgoglioso dei "leoni". Esagerato? No, perché lo sport è esattamente questo: una concreta metafora di vita.

Tra l'azzurro in mezzo al campo e quello sulla curva ci sono circa 60 metri di distanza, ma anni luce di distacco emotivo. Se la parte azzurra sugli spalti reclama un onore buttato alle ortiche di un' intera storia calcistica, quella in mezzo al campo rimane attonita e ascolta il sordo rumore dei fischi a capo chino. Quest'ultima rimane lì, nonostante i fischi, nonostante i cori, nonostante gli insulti e nonostante tutto. Perché quella parte azzurra in mezzo al verde è consapevole di non aver dato abbastanza, di aver deluso una città e che qualunque cosa succeda rimarrà sempre l'azzurro retrocesso in Seconda Divisione. Ad un certo punto però c'è una testa, fra le tante chinate, che si alza e fissando la curva riconosce dentro di sé di aver fatto tutto il possibile e anche l'impossibile: mister Cosco.

Strano il destino: Vincenzo Cosco da essere l'uomo salvezza 2011/2012, passando per essere il primo allenatore ad aver espugnato il Puttilli, ad essere infine ricordato come l'allenatore della squadra retrocessa. Una cosa è certa però: sarà colui che come tutti e più di tutti ha creduto, lavorato e sudato per un obiettivo. Le lacrime nel calcio non sono rare: di gioia o di dolore al termine di partite come quelle di ieri se ne vedono a bizzeffe. Di solito però, l'allenatore è sempre quello che infine ci mette la faccia, che deve pensare agli errori tattici e ad ammettere che gli avversari sono stati superiori. Il tecnico molisano ci ha messo qualcosa in più. In sala stampa al Degli Ulivi le telecamere non raccolgono tutto, ma fortunatamente ci sono giornalisti che possono testimoniarlo. Perché è giusto poter parlare delle lacrime di un allenatore, di un uomo, che ha sempre creduto in una salvezza che ad inizio anno era pura utopia. Perché ha creduto in un progetto senza alcun futuro. Perché ci ha creduto anche quando ha dovuto fare altro al di fuori di quello per cui era "pagato". Il tutto per sfociare in una tremenda commozione, che racchiude in sé più che rammarico, un vero e proprio senso di colpa nei confronti di una città già ferita nell'orgoglio l'estate scorsa e di una storia calcistica importante come quella andriese.

Gli occhi di Cosco sono stati il meglio che un amante di calcio possa osservare dal vivo. Sono la speranza in uno sport che sembra sempre più andare verso il marcio e alla ricerca del "Dio Denaro", tralasciando la sua vera natura: regalare grandi emozioni, belle o brutte che siano. Occhi che sanno del più amaro degli addii, di quelli che speri non dover affrontare mai e che quando te li ritrovi davanti, ci sei dentro fino in fondo. Un pianto a cui non si poteva non rispondere, come giusto che sia, con un affettuoso applauso che racchiude in sé un semplice, ma sentito «Grazie per averci creduto sempre». Perché passare da gloria a disonore basta poco. Farlo a testa alta è da vincenti.
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