Decervellamento
Vite precarie
Riconoscere l'importanza del lavoro
martedì 30 aprile 2013
18.02
Tanti oggi i lavoratori atipici in Italia: impiegati a termine, interinali, collaboratori, stagionali, tutti accomunati dall'instabilità del posto di lavoro. Lavoratori flessibili, precari, in continuo adattamento a condizioni e contesti differenti, in termini di competenze, relazioni sociali, tempi e aspettative circa il futuro. Proviamo a definire il precariato e la precarietà.
'Precario' viene dal latino prex e ha la stessa radice etimologica del termine preghiera (prece in Italiano antico). Il precario è colui che prega, cioè colui che implora qualcosa o qualcuno (una divinità, una persona o un'istituzione) per ottenere un qualche beneficio. Quindi è legato alla volontà e all'arbitrio di qualcun altro. Da questo il termine precario che significa anche instabile, pencolante.
Quali le reazioni più comuni dinnanzi alla precarietà? La precarietà mette di fronte al senso di impotenza, alla paura di perdere la sicurezza. Alcune persone, sostiene la psicologa Michela Rosati in un articolo intitolato Precariato, ansia e depressione, «riescono a trasformare l'instabilità lavorativa in qualcosa di positivo, interpretando la flessibilità come uno stimolo a migliorarsi. Sono generalmente persone con una grande fiducia in se stesse, disposte a tollerare l'insoddisfazione e a trarre beneficio da ogni occasione di crescita. Per altri, tuttavia, le cose non vanno allo stesso modo. Passare da un posto di lavoro all'altro può portare la persona a sentirsi davvero precaria, anche rispetto alla propria identità. Non si sa bene quale sia il proprio ruolo nella società. Ci si sente sottovalutati e costretti ad impegnarsi in qualcosa in cui non si crede, in bilico fra il desiderio di rinunciare e l'ansia di essere licenziati. La paura del licenziamento o del mancato rinnovamento contrattuale induce spesso ad accettare le condizioni più sinistre, corrodendo poco a poco l'autostima».
La libertà individuale e il potersi sentire pienamente integrati nel tessuto sociale dipendono, in parte, dal lavoro e dal suo riconoscimento sociale e culturale. Per questo è importante una cultura del lavoro che ne evidenzi il valore e il significato civile e umano.
'Precario' viene dal latino prex e ha la stessa radice etimologica del termine preghiera (prece in Italiano antico). Il precario è colui che prega, cioè colui che implora qualcosa o qualcuno (una divinità, una persona o un'istituzione) per ottenere un qualche beneficio. Quindi è legato alla volontà e all'arbitrio di qualcun altro. Da questo il termine precario che significa anche instabile, pencolante.
Quali le reazioni più comuni dinnanzi alla precarietà? La precarietà mette di fronte al senso di impotenza, alla paura di perdere la sicurezza. Alcune persone, sostiene la psicologa Michela Rosati in un articolo intitolato Precariato, ansia e depressione, «riescono a trasformare l'instabilità lavorativa in qualcosa di positivo, interpretando la flessibilità come uno stimolo a migliorarsi. Sono generalmente persone con una grande fiducia in se stesse, disposte a tollerare l'insoddisfazione e a trarre beneficio da ogni occasione di crescita. Per altri, tuttavia, le cose non vanno allo stesso modo. Passare da un posto di lavoro all'altro può portare la persona a sentirsi davvero precaria, anche rispetto alla propria identità. Non si sa bene quale sia il proprio ruolo nella società. Ci si sente sottovalutati e costretti ad impegnarsi in qualcosa in cui non si crede, in bilico fra il desiderio di rinunciare e l'ansia di essere licenziati. La paura del licenziamento o del mancato rinnovamento contrattuale induce spesso ad accettare le condizioni più sinistre, corrodendo poco a poco l'autostima».
La libertà individuale e il potersi sentire pienamente integrati nel tessuto sociale dipendono, in parte, dal lavoro e dal suo riconoscimento sociale e culturale. Per questo è importante una cultura del lavoro che ne evidenzi il valore e il significato civile e umano.