On Writing
Certo
Di Roberta Falcone
domenica 24 agosto 2014
Eravamo a letto, distesi uno accanto all'altra. Fuori il vento ululava e si sentivano i cani dei vicini abbaiare ogni volta che qualcuno passava per strada. Ero accoccolato sul seno di Margherita. Sprigionava tanto di quel calore che mi sembrava di avere sotto la testa un cuscino elettrico. Mi stava leggendo un libro, non ricordo quale. Lei adorava farlo e io adoravo la vibrazione del suo petto a ogni parola.
«Dovresti andare dal dottore» disse, interrompendo la lettura.
«Non preoccuparti tesoro, è solo un po' di raffreddore». Presi due ciocche dei suoi lunghi capelli neri e iniziai a giocherellarci.
«No, dico da un andrologo». Lasciai i capelli e alzai la testa.
«Sono cinque mesi che ci proviamo...» disse mettendosi a sedere. La mia testa scivolò sul cuscino. Guardai il soffitto.
«Domani chiamo l'imbianchino, non sopporto quelle macchie di umidità».
«È solo un controllo, per essere sicuri». Mi prese la mano e se la portò al seno.
Mi girai dall'altra parte.
«Lo farai? Poi lo farò anche io...»
«Va bene».
Mi accarezzò la schiena e la sua mano scivolò verso il basso.
«Puoi spegnere la luce? Sono molto stanco».
Si girò, allungo la mano verso l'abat-jour sul comodino e fu buio.
Fissai l'ombra del lampione fuori dalla finestra, i cani dei vicini si erano zittiti e il letto d'improvviso prese a ingrandirsi.
La sala d'aspetto era spoglia; c'erano altri quattro uomini nella stanza. Passai in rassegna i loro volti con lo sguardo. Squillò un telefono. Sobbalzai.
«Pronto mamma» disse il più giovane dei quattro «non posso parlare ora, ho da fare, ti richiamo dopo». Silenzio. «Ti ho detto che avevo una riunione di lavoro. Ti chiamo appena finisco».
Riagganciò e alzò lo sguardo verso di me. Mi accorsi in quel momento che lo stavo fissando. Accennò un sorriso e tornò a guardare il cellulare. Gli sorrisi anche io e portai lo sguardo verso la rivista che avevo in mano.
Cercavo di leggere un articolo ma la mia mente tornava a quella mattina.
«Mi amerai?»
«Certo» mi aveva risposto Margherita.
Sapevo che era sincera, ma che peso potevano avere le parole nell'incertezza?
«Signor Paoli?»
«Eccomi».
«Venga».
Mi alzai di scatto, la vista mi si annebbiò e ci volle qualche secondo prima che ricominciassi a vederci.
Il dottore era un uomo sulla cinquantina, bianca la carnagione e bianco anche il camice.
La barba lasciava intravedere il colore rosso di gioventù. Mi ricordò il mio macellaio. Mi diede un contenitore di plastica e mi invitò a entrare in una piccola stanza. Posai la mano sul pomello ed ebbi la sensazione che avrei trovato animali squartati appesi a testa in giù e gocce di sangue sul pavimento.
«Mi amerai?»
«Certo».
Come poteva saperlo?
Il tavolino era pieno di riviste. Provai a sfogliarne qualcuna ma continuavo a ripensare a quelle parole.
«Mi amerai?»
«Certo».
Mi amerai? Certo.
Certo. Certo, certo, certo certo certo certocertocerto. Sentii un conato di vomito salire su per la gola. Venni. Non so se la causa fosse stata la sensazione che più ripetevo quelle parole più quelle divenivano reali, o le due donne che si contorcevano a pagina 18 di Playboy.
Chiusi il contenitore, aspettai che il respiro tornasse regolare e simulai un'aria disinvolta. Quando uscii dallo studio del dottore le gambe mi formicolavano, a stento riuscivo a posare i piedi per terra senza sentire degli spilli conficcati nella pelle. Gli uomini nella sala d'attesa erano diventati tre.
Mi infilai in macchina. A quell'ora del pomeriggio non c'era traffico. Mi asciugai le mani sudate sulle ginocchia e le misi sul volante. La strada correva dritta per circa duecento metri, alla prima rotonda girai a sinistra, ancora dritto fino ad un'altra rotonda, presi la prima a destra, poi di nuovo a sinistra, poi ancora dritto e alla terza rotonda girai alla seconda uscita. Mi ritrovai di fronte un semaforo. Frenai. Guardai alla mia destra, al di là del finestrino. Una parete di panni stesi. Un lenzuolo verde acqua danzava, sorretto da una molletta rossa e una gialla che mi ricordavano due piccole manine. Mi ero perso.
Il lunedì successivo ero solo in casa. Margherita aveva passato il week-end da sua madre e sarebbe tornata a breve. Stavo facendo una doccia calda e sentii squillare il telefono.
Mi precipitai fuori dal bagno che ero ancora nudo, cercai il telefono sul tavolo del salotto e risposi.
«Pronto?». Presi un asciugamano e mi coprii. «Mi dica dottore».
«Ho qui i suoi risultati. Lei è perfettamente a posto. Signor Paoli?»
«Sì sì, mi scusi. La ringrazio dottore».
Riattaccai e mi buttai sul divano. Poggiai la testa sullo schienale e respirai forte.
Ammirai il mio corpo nudo e sorrisi. Ripresi il telefono in mano e iniziai a comporre il numero di Margherita. A un tratto mi bloccai e buttai giù. Dopo qualche istante la porta d'ingresso si aprì.
«Ciao amore».
Mi infilai l'accappatoio e lo chiusi con la cintura. Lei si avvicinò a me e mi diede un bacio sulle labbra immobili.
«Com'è andato il week-end?»
«Bene» risposi.
«Novità?»
«L'imbianchino ha ritinteggiato le pareti» risposi.
«Stai bene?»
«Ti amo» risposi.
«Dovresti andare dal dottore» disse, interrompendo la lettura.
«Non preoccuparti tesoro, è solo un po' di raffreddore». Presi due ciocche dei suoi lunghi capelli neri e iniziai a giocherellarci.
«No, dico da un andrologo». Lasciai i capelli e alzai la testa.
«Sono cinque mesi che ci proviamo...» disse mettendosi a sedere. La mia testa scivolò sul cuscino. Guardai il soffitto.
«Domani chiamo l'imbianchino, non sopporto quelle macchie di umidità».
«È solo un controllo, per essere sicuri». Mi prese la mano e se la portò al seno.
Mi girai dall'altra parte.
«Lo farai? Poi lo farò anche io...»
«Va bene».
Mi accarezzò la schiena e la sua mano scivolò verso il basso.
«Puoi spegnere la luce? Sono molto stanco».
Si girò, allungo la mano verso l'abat-jour sul comodino e fu buio.
Fissai l'ombra del lampione fuori dalla finestra, i cani dei vicini si erano zittiti e il letto d'improvviso prese a ingrandirsi.
La sala d'aspetto era spoglia; c'erano altri quattro uomini nella stanza. Passai in rassegna i loro volti con lo sguardo. Squillò un telefono. Sobbalzai.
«Pronto mamma» disse il più giovane dei quattro «non posso parlare ora, ho da fare, ti richiamo dopo». Silenzio. «Ti ho detto che avevo una riunione di lavoro. Ti chiamo appena finisco».
Riagganciò e alzò lo sguardo verso di me. Mi accorsi in quel momento che lo stavo fissando. Accennò un sorriso e tornò a guardare il cellulare. Gli sorrisi anche io e portai lo sguardo verso la rivista che avevo in mano.
Cercavo di leggere un articolo ma la mia mente tornava a quella mattina.
«Mi amerai?»
«Certo» mi aveva risposto Margherita.
Sapevo che era sincera, ma che peso potevano avere le parole nell'incertezza?
«Signor Paoli?»
«Eccomi».
«Venga».
Mi alzai di scatto, la vista mi si annebbiò e ci volle qualche secondo prima che ricominciassi a vederci.
Il dottore era un uomo sulla cinquantina, bianca la carnagione e bianco anche il camice.
La barba lasciava intravedere il colore rosso di gioventù. Mi ricordò il mio macellaio. Mi diede un contenitore di plastica e mi invitò a entrare in una piccola stanza. Posai la mano sul pomello ed ebbi la sensazione che avrei trovato animali squartati appesi a testa in giù e gocce di sangue sul pavimento.
«Mi amerai?»
«Certo».
Come poteva saperlo?
Il tavolino era pieno di riviste. Provai a sfogliarne qualcuna ma continuavo a ripensare a quelle parole.
«Mi amerai?»
«Certo».
Mi amerai? Certo.
Certo. Certo, certo, certo certo certo certocertocerto. Sentii un conato di vomito salire su per la gola. Venni. Non so se la causa fosse stata la sensazione che più ripetevo quelle parole più quelle divenivano reali, o le due donne che si contorcevano a pagina 18 di Playboy.
Chiusi il contenitore, aspettai che il respiro tornasse regolare e simulai un'aria disinvolta. Quando uscii dallo studio del dottore le gambe mi formicolavano, a stento riuscivo a posare i piedi per terra senza sentire degli spilli conficcati nella pelle. Gli uomini nella sala d'attesa erano diventati tre.
Mi infilai in macchina. A quell'ora del pomeriggio non c'era traffico. Mi asciugai le mani sudate sulle ginocchia e le misi sul volante. La strada correva dritta per circa duecento metri, alla prima rotonda girai a sinistra, ancora dritto fino ad un'altra rotonda, presi la prima a destra, poi di nuovo a sinistra, poi ancora dritto e alla terza rotonda girai alla seconda uscita. Mi ritrovai di fronte un semaforo. Frenai. Guardai alla mia destra, al di là del finestrino. Una parete di panni stesi. Un lenzuolo verde acqua danzava, sorretto da una molletta rossa e una gialla che mi ricordavano due piccole manine. Mi ero perso.
Il lunedì successivo ero solo in casa. Margherita aveva passato il week-end da sua madre e sarebbe tornata a breve. Stavo facendo una doccia calda e sentii squillare il telefono.
Mi precipitai fuori dal bagno che ero ancora nudo, cercai il telefono sul tavolo del salotto e risposi.
«Pronto?». Presi un asciugamano e mi coprii. «Mi dica dottore».
«Ho qui i suoi risultati. Lei è perfettamente a posto. Signor Paoli?»
«Sì sì, mi scusi. La ringrazio dottore».
Riattaccai e mi buttai sul divano. Poggiai la testa sullo schienale e respirai forte.
Ammirai il mio corpo nudo e sorrisi. Ripresi il telefono in mano e iniziai a comporre il numero di Margherita. A un tratto mi bloccai e buttai giù. Dopo qualche istante la porta d'ingresso si aprì.
«Ciao amore».
Mi infilai l'accappatoio e lo chiusi con la cintura. Lei si avvicinò a me e mi diede un bacio sulle labbra immobili.
«Com'è andato il week-end?»
«Bene» risposi.
«Novità?»
«L'imbianchino ha ritinteggiato le pareti» risposi.
«Stai bene?»
«Ti amo» risposi.