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Home restaurant: attività che necessita di regolamentazione

Più vincoli e controlli a tutela della concorrenza

Andare fuori a cena? Meglio farlo a casa di qualcuno, in un home restaurant, supper club, pop-up o underground restaurant, come dir si voglia. Spuntati come funghi da Nord a Sud, si tratta di case private trasformate in un ristorante esclusivo e segreto pronto a sfidare la ristorazione classica, dove i padroni di casa si trasformano in chef e gli avventori sono perfetti sconosciuti. La regola principale è quella di mettere al bando la timidezza e l'imbarazzo e considerarsi tra amici, sebbene ci si ritrovi seduti accanto a persone incontrate lì per la prima volta.

Considerati l'evoluzione dei guerrilla restaurant, dei "cuochi volanti" a domicilio che hanno preso piede nella prima parte del decennio, la moda dei ristoranti privati nasce dall'intuizione di Miss Marmite, che a Londra fondò nel lontano 2009 il Marmitelover, ristorante tutt'ora segreto considerato il primo della sua specie e che oggi riscuote oboli da 50 sterline a botta per una serata "casalinga".

Di questi social eating si viene a sapere con il passaparola o attraverso i social network. Chi lo ha detto, infatti, che la tecnologia crea solitudine? Il contatto con il potenziale cliente avviene proprio sul web: ci sono già diverse piattaforme esclusivamente dedicate, ma anche siti internet specifici del locale oppure per i meno organizzati basta anche una semplice pagina Facebook. Fra le piattaforme italiane quella che funziona meglio a livello locale è Ceneromane, punto di riferimento per l'home restaurant capitolino. La più grande community italiana è Gnammo.com, diffusa in 124 città nelle quali ha arruolato 1055 cuochi Gnammo.com. A Milano per cenare con l'associazione Ma' Hidden Kitchen Supper Club c'è una lista d'attesa di 3mila persone. Kitchenparty.org si presenta invece come «una community di persone aperte e curiose che condividono la propria passione per la cucina e la buona tavola incontrandosi a casa e nei locali per conoscere ogni volta nuovi amici». La vocazione più cosmopolita ce l'ha New Gusto, social eating nato in Italia e attualmente presente in ben 56 Paesi mentre il social più low cost di tutti è PeopleCooks dove vige una regola rigida: il pasto non deve superare quota 6 euro a testa.

Il fenomeno si sta espandendo viralmente tanto che Airbnb, la piattaforma globale nella quale si affitta la propria casa o parti di essa per brevi periodi, sarà presto attivo un servizio di home restaurant.

Secondo le stime degli addetti al settore, nel 2014 sono stati organizzati 37 mila eventi social eating, con una partecipazione di circa 300.000 persone e un incasso medio, per singola serata, pari a 194 euro, mentre uno studio CST per Fiepet Confesercenti rivela che nel 2014 l'universo degli home restaurant ha fatturato 7,2 milioni di euro, con settemila cuochi social attivi e una tendenza prevista in ulteriore crescita.

Tra gli homer c'è chi lo fa per socializzare e chi perché ha la passione per i fornelli, ma avviare un ristorante in casa propria è indubbiamente anche un business e un'opportunità di lavoro. Attività che si è svolta, finora, in assenza di regole e controlli, non servendo particolari attrezzature, dotazioni o permessi. Allo stato attuale, infatti, in Italia non esiste una normativa che ne disciplini lo svolgimento, ma solo un disegno di legge (DDL n.1271 del 27/02/2014), non ancora discusso, nel quale vengono tracciate le linee guida per diventare un homer.

La Fipe (Federazione Italiana Pubblici Esercizi) ha più volte invocato l'introduzione di regole a garanzia di una competizione leale e corretta: «a parità di attività ci vuole parità di regole, di tributi e di obblighi, non è ammissibile che ci possano essere modalità diverse di fare ristorazione: da un lato quelle soggette a norme e prescrizioni rigorose a tutela della qualità e della salute; dall'altro quelle senza vincoli, senza controlli, senza tasse, senza sicurezze igieniche».

Richieste recepite dal Ministero dello sviluppo economico che nella nota del 10/4/2015 equipara gli home restaurant alle attività di somministrazione di alimenti e bevande, caricandoli così di un iter burocratico che, di fatto, metterebbe fuorilegge quelli già esistenti. Ciò in quanto «anche se i prodotti vengono preparati e serviti in locali privati coincidenti con il domicilio del cuoco, essi rappresentano comunque locali attrezzati aperti alla clientela. Infatti, la fornitura di dette prestazioni comporta il pagamento di un corrispettivo, quindi, anche con l'innovativa modalità, l'attività si esplica quale attività economica in senso proprio». Di conseguenza, si dovrebbero applicare, secondo il Mise, le disposizioni di cui all'articolo 64, comma 7, del d.lgs n. 59/2010 e s.m.i.: i soggetti che vogliono fare home restaurant, in buona sostanza, dovrebbero presentare la Scia o richiedere l'autorizzazione, se l'attività è svolta in zone tutelate, dovrebbero avere un piano Haccp, impianti e strutture a norma e via dicendo. Posizione ribadita dalla Commissione Industria della Camera con la risoluzione del 04/02/2016 che impegna, inoltre, il governo a regolamentare l'attività degli home restaurant, definiti come «una nuova tipologia di attività che rischia altrimenti di configurarsi anomala sul piano della concorrenza, della fiscalità e della tutela della salute pubblica».

La necessità di una regolamentazione, afferma il governo, deriva dal fatto che «esiste il rischio concreto che, a fronte di modalità diverse di fare ristorazione, dove da un lato ci sono imprese e lavoratori soggetti a norme e prescrizioni rigorose a tutela della qualità del servizio, della salute e della sicurezza dei lavoratori e dei clienti e dall'altro attività potenzialmente scevre da vincoli e controlli, anche igienici e fiscali, ci sia una significativo vulnus alla concorrenza nel settore, con evidente penalizzazione delle imprese in regola».
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