Attualità
Sabino Zinni ed il racconto del contagio: «La morte non ha mascherina, si mostra in tutto il suo aspetto orribile»
Il notaio andriese, esponente del movimento civico Andria Bene in Comune racconta "in presa diretta" quanto accadutogli
Andria - sabato 9 gennaio 2021
8.18
Il contagio ed il ricovero in ospedale: le sensazioni e le riflessioni su questo subdolo quanto pericoloso virus, così come vissute dal notaio Sabino Zinni, esponente del movimento civico "Andria Bene in Comune", raccontate in un articolo sull'ultimo numero della rivista diocesana "Insieme".
«Verso fine novembre la sorte ha voluto rendermi figlio degno del mio tempo, e sono risultato positivo al Covid. Sono stato positivo sintomatico, molto sintomatico, non sono state settimane facili. Dopo accertato il mio contagio ho iniziato a curarmi stando a casa. Pensavo di non essere una tipologia d'infetto troppo esposta e credevo di cavarmela con poco. Ecco, uno degli aspetti più infami del Covid è proprio questo, la sensazione che ti dà di riuscire a cavartela.
Ricordo che in quei giorni di malattia, la mattina mi svegliavo tutto sommato bene. Solo qualche misera linea di febbre, e allora mi convincevo di essere in via di guarigione, che non ci avrei messo molto a tornare in forma. Poi, via via, passavano le ore e lentamente le mie condizioni peggioravano: la febbre si alzava, il respiro si faceva sempre più pesante e mi pervadeva una stanchezza ingiustificata. In serata mi ritrovavo immobile sul letto in preda a un torpore immobilizzante, senza la forza di poter fare neanche il più piccolo gesto.
Il Covid, insomma, non è un nemico che ti dichiara guerra e ti combatte a viso aperto, è un nemico che ti combatte tramite azioni di spionaggio, tante piccole azioni di sabotaggio che poi sommate ti piegano. La cosa fondamentale dunque è accorgersi in tempo di queste azioni, e dei danni che pian piano fanno. Se non lo si fa e si supera un certo limite, la guarigione è pressoché impossibile. "Ringrazia chi ti seguiva mentre eri a casa per il tempismo che ha avuto nel portarti qui, se avessi aspettato altri 2 giorni non ti avremmo ripreso più". Queste sono le testuali parole che il primario di terapia intensiva dell'ospedale di Bisceglie mi ha rivolto una volta arrivato in reparto. E io certo che li ringrazio quegli angeli che in quel momento così delicato mi hanno convinto a ricoverarmi, li ringrazio con tutto me stesso. Come non posso che ringraziare i medici della medicina territoriale che mi hanno seguito.
Nei giorni ricoverato in ospedale, solo, in mezzo lucine e suoni di spie che avvisano che qualcosa sta succedendo, come si dice da noi, "ho visto la morte in faccia". La morte non ha mascherina, si mostra in tutto il suo aspetto orribile, e non mantiene il distanziamento, anzi ci tiene a farti sentire che si avvicina. A tenerla lontana ci pensano medici e infermieri e personale sanitario che, almeno nel mio caso, sono riusciti a rimandarla indietro. Ed è per questo che una volta uscitone, una volta tornato negativo, ho voluto parlare di questa esperienza. Soprattutto e fondamentalmente per ringraziare coloro che hanno vinto contro la mia morte: ossia tutto il personale del reparto di terapia intensiva dell'ospedale di Bisceglie dove sono stato ricoverato.
Una volta tornato a casa, in via di guarigione, con il mio "cuore pensante" ho rivisto il loro lavoro e mi è venuta in mente l'immagine di un bellissimo ed organizzato alveare nel quale ognuno di loro, con il massimo della disponibilità, dell'umanità, della professionalità, dell'amorevolezza, ha svolto, in modo sincronicamente e organizzativamente perfetto, il proprio compito e tutti insieme un proficuo e costruttivo lavoro d'insieme.
In un luogo di grande sofferenza e dolore, paradossalmente mi sono sentito in pace perché accolto, coccolato, vezzeggiato; insomma in buone mani. Spesso e volentieri una vulgata becera e qualunquista si diverte a "sparare" sul mondo della sanità, loro invece sono stati la dimostrazione dell'esatto opposto: una sanità efficace ed efficiente, umana e umanizzata, professionale e competente.
Insomma, se è vero come è vero, ciò che afferma Friedrich Nietzsche "tutto ciò che non mi uccide, mi rafforza", il senso ultimo di questa mia permanenza tra loro, come il senso ultimo di questa cosa orribile che mi è capitata, è esserne uscito uomo nuovo, forte e fortificato, più consapevole e attento alle fragilità ed ai bisogni dei più sofferenti. Di ciò non posso che essere immensamente e profondamente grato a quegli operatori sanitari, e li porto con me, custoditi gelosamente nella parte più intima e sacra di me stesso.
All'inizio avevo scritto un lettera privata per ringraziare chi mi è stato vicino. In seguito però ho ritenuto di renderla pubblica perché fra negazionisti, disfattisti e idioti di ogni sorta - le righe di uno che ci è passato - potrebbero avere una valenza per tutti. E spero lo facciano, perché entità più subdola del Covid, non l'ho mai conosciuta. E non sono mai stato emozionato nello scrivere qualcosa, come durante la stesura di queste parole, perché sono la testimonianza di un grande privilegio che il Cielo ha voluto accordarmi: quello di raccontarla. E quello di sentire, ad ogni lettera digitata, la fortuna di avercela fatta».
«Verso fine novembre la sorte ha voluto rendermi figlio degno del mio tempo, e sono risultato positivo al Covid. Sono stato positivo sintomatico, molto sintomatico, non sono state settimane facili. Dopo accertato il mio contagio ho iniziato a curarmi stando a casa. Pensavo di non essere una tipologia d'infetto troppo esposta e credevo di cavarmela con poco. Ecco, uno degli aspetti più infami del Covid è proprio questo, la sensazione che ti dà di riuscire a cavartela.
Ricordo che in quei giorni di malattia, la mattina mi svegliavo tutto sommato bene. Solo qualche misera linea di febbre, e allora mi convincevo di essere in via di guarigione, che non ci avrei messo molto a tornare in forma. Poi, via via, passavano le ore e lentamente le mie condizioni peggioravano: la febbre si alzava, il respiro si faceva sempre più pesante e mi pervadeva una stanchezza ingiustificata. In serata mi ritrovavo immobile sul letto in preda a un torpore immobilizzante, senza la forza di poter fare neanche il più piccolo gesto.
Il Covid, insomma, non è un nemico che ti dichiara guerra e ti combatte a viso aperto, è un nemico che ti combatte tramite azioni di spionaggio, tante piccole azioni di sabotaggio che poi sommate ti piegano. La cosa fondamentale dunque è accorgersi in tempo di queste azioni, e dei danni che pian piano fanno. Se non lo si fa e si supera un certo limite, la guarigione è pressoché impossibile. "Ringrazia chi ti seguiva mentre eri a casa per il tempismo che ha avuto nel portarti qui, se avessi aspettato altri 2 giorni non ti avremmo ripreso più". Queste sono le testuali parole che il primario di terapia intensiva dell'ospedale di Bisceglie mi ha rivolto una volta arrivato in reparto. E io certo che li ringrazio quegli angeli che in quel momento così delicato mi hanno convinto a ricoverarmi, li ringrazio con tutto me stesso. Come non posso che ringraziare i medici della medicina territoriale che mi hanno seguito.
Nei giorni ricoverato in ospedale, solo, in mezzo lucine e suoni di spie che avvisano che qualcosa sta succedendo, come si dice da noi, "ho visto la morte in faccia". La morte non ha mascherina, si mostra in tutto il suo aspetto orribile, e non mantiene il distanziamento, anzi ci tiene a farti sentire che si avvicina. A tenerla lontana ci pensano medici e infermieri e personale sanitario che, almeno nel mio caso, sono riusciti a rimandarla indietro. Ed è per questo che una volta uscitone, una volta tornato negativo, ho voluto parlare di questa esperienza. Soprattutto e fondamentalmente per ringraziare coloro che hanno vinto contro la mia morte: ossia tutto il personale del reparto di terapia intensiva dell'ospedale di Bisceglie dove sono stato ricoverato.
Una volta tornato a casa, in via di guarigione, con il mio "cuore pensante" ho rivisto il loro lavoro e mi è venuta in mente l'immagine di un bellissimo ed organizzato alveare nel quale ognuno di loro, con il massimo della disponibilità, dell'umanità, della professionalità, dell'amorevolezza, ha svolto, in modo sincronicamente e organizzativamente perfetto, il proprio compito e tutti insieme un proficuo e costruttivo lavoro d'insieme.
In un luogo di grande sofferenza e dolore, paradossalmente mi sono sentito in pace perché accolto, coccolato, vezzeggiato; insomma in buone mani. Spesso e volentieri una vulgata becera e qualunquista si diverte a "sparare" sul mondo della sanità, loro invece sono stati la dimostrazione dell'esatto opposto: una sanità efficace ed efficiente, umana e umanizzata, professionale e competente.
Insomma, se è vero come è vero, ciò che afferma Friedrich Nietzsche "tutto ciò che non mi uccide, mi rafforza", il senso ultimo di questa mia permanenza tra loro, come il senso ultimo di questa cosa orribile che mi è capitata, è esserne uscito uomo nuovo, forte e fortificato, più consapevole e attento alle fragilità ed ai bisogni dei più sofferenti. Di ciò non posso che essere immensamente e profondamente grato a quegli operatori sanitari, e li porto con me, custoditi gelosamente nella parte più intima e sacra di me stesso.
All'inizio avevo scritto un lettera privata per ringraziare chi mi è stato vicino. In seguito però ho ritenuto di renderla pubblica perché fra negazionisti, disfattisti e idioti di ogni sorta - le righe di uno che ci è passato - potrebbero avere una valenza per tutti. E spero lo facciano, perché entità più subdola del Covid, non l'ho mai conosciuta. E non sono mai stato emozionato nello scrivere qualcosa, come durante la stesura di queste parole, perché sono la testimonianza di un grande privilegio che il Cielo ha voluto accordarmi: quello di raccontarla. E quello di sentire, ad ogni lettera digitata, la fortuna di avercela fatta».