Vita di città
Giovanna Bruno: «Non esiste un primato del dolore. È il medesimo. Nel lager o nel buio di una foiba»
Le parole della sindaca in occasione della celebrazione del Giorno del Ricordo
Andria - giovedì 10 febbraio 2022
13.14
Per non dimenticare i massacri delle foibe e l'esodo giuliano dalmata. Nel 2004 una legge istituì il Giorno del ricordo, il 10 febbraio vuole conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime degli inghiottitoi carsici dove furono gettati molti dei corpi, dell'esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale. La data prescelta è il giorno in cui, nel 1947, furono firmati i trattati di pace di Parigi, che assegnavano alla Jugoslavia l'Istria, la città di Zara con la sua provincia e la maggior parte della Venezia Giulia, in precedenza facenti parte dell'Italia.
Ad Andria, preceduta dall'inno d'Italia, a pochi passi dal Monumento ai Caduti si è svolta la cerimonia della Giornata del Ricordo dell'eccidio di migliaia di italiani nelle foibe del Carso vittime della ferocia comunista delle truppe di Tito e nel suo discorso la sindaca Giovanna Bruno ha ricordato che «lo scorso anno, nell'occasione della celebrazione della Giornata del Ricordo, avevo rivolto a noi tutti l'augurio di un cammino autentico di Pacificazione, iniziando dalla base della convivenza civile, lo stare assieme, uniti dalla memoria dei grandi orrori della nostra storia contemporanea. A soli dodici mesi di distanza, mi risveglio in un mondo che non è mutato molto. Anzi. Incantato dal gelo della Pandemia, esso è preda dei più primordiali istinti di sopravvivenza. Quello che, per intenderci, spinge l'essere umano a non fermarsi davanti all'orrore della prevaricazione. Nonostante oggi si sia ampiamente in possesso di tutti gli strumenti informativi e documentali per prendere le distanze dall'abbrutimento.
E nemmeno due settimane fa parlavamo di Memoria, come funzione intermittente tra presente e passato. Come filtro e garanzia del nostro esistere. L'uomo continua a fare gli stessi sbagli, a dividersi anziché cercare di pensare con l'intelligenza affettiva che accomuna tra loro i simili e tutte le altre specie viventi sul pianeta in un unico abbraccio, quello dell'esistere. Oggi il ricordo si fa ancora più vicino e ammonisce che il furore cieco della vendetta non risparmia nessuno.
Qualche volta, però, il tranello arriva dalla retorica: una giornata del Ricordo ed una della Memoria. Celebrazioni doverose alle quali inchinare la testa. Senza dimenticare, però, al di là del bisticcio linguistico, che non c'è bisogno di rincorrere la Verità e di sancire che la Storia si vive in due tempi. Che ci sono vittime di serie A e vittime di serie B.
Qualche giorno addietro, il Maestro Francesco Lotoro, appassionato e prezioso studioso di letteratura musicale concentrazionaria, ha squarciato il buio, con un'affermazione all'apparenza banale: nel suo libro, non c'è solo spazio per la musica della Shoah. Trent'anni del suo lavoro sono stati spesi per testimoniare che, quando un uomo è privato della libertà (dal nazismo allo stalinismo, fino ai campi di prigionia del sudest asiatico), egli sa rendersi libero attraverso la musica. Che esprime in maniera incomprimibile la propria austera anarchia in ogni momento della storia. In altri termini, non esiste un primato del dolore. È il medesimo. Nel lager o nel buio di una foiba.
Allora, forse, abbiamo ancora una volta l'obbligo di tenerci per mano, di non mollare la stretta e di continuare a professare l'unica speranza possibile: che la forza di stare uniti, di essere comunità, debba essere la colomba che vola dall'Arca contemporanea. Abbiamo bisogno di sognare. Abbiamo necessità di abbracciarci. Abbiamo il dovere di riconoscerci comunità. Una scelta minoritaria che, però, ha il potere di spezzare il filo spinato, di rompere quel filo di ferro con cui tanti nostri compatrioti, in nome di un cieco odio discriminatorio, furono legati e lanciati nelle voragini della terra. Inghiottiti in un buio su cui per troppo tempo è calato il miope silenzio della storia».
Ad Andria, preceduta dall'inno d'Italia, a pochi passi dal Monumento ai Caduti si è svolta la cerimonia della Giornata del Ricordo dell'eccidio di migliaia di italiani nelle foibe del Carso vittime della ferocia comunista delle truppe di Tito e nel suo discorso la sindaca Giovanna Bruno ha ricordato che «lo scorso anno, nell'occasione della celebrazione della Giornata del Ricordo, avevo rivolto a noi tutti l'augurio di un cammino autentico di Pacificazione, iniziando dalla base della convivenza civile, lo stare assieme, uniti dalla memoria dei grandi orrori della nostra storia contemporanea. A soli dodici mesi di distanza, mi risveglio in un mondo che non è mutato molto. Anzi. Incantato dal gelo della Pandemia, esso è preda dei più primordiali istinti di sopravvivenza. Quello che, per intenderci, spinge l'essere umano a non fermarsi davanti all'orrore della prevaricazione. Nonostante oggi si sia ampiamente in possesso di tutti gli strumenti informativi e documentali per prendere le distanze dall'abbrutimento.
E nemmeno due settimane fa parlavamo di Memoria, come funzione intermittente tra presente e passato. Come filtro e garanzia del nostro esistere. L'uomo continua a fare gli stessi sbagli, a dividersi anziché cercare di pensare con l'intelligenza affettiva che accomuna tra loro i simili e tutte le altre specie viventi sul pianeta in un unico abbraccio, quello dell'esistere. Oggi il ricordo si fa ancora più vicino e ammonisce che il furore cieco della vendetta non risparmia nessuno.
Qualche volta, però, il tranello arriva dalla retorica: una giornata del Ricordo ed una della Memoria. Celebrazioni doverose alle quali inchinare la testa. Senza dimenticare, però, al di là del bisticcio linguistico, che non c'è bisogno di rincorrere la Verità e di sancire che la Storia si vive in due tempi. Che ci sono vittime di serie A e vittime di serie B.
Qualche giorno addietro, il Maestro Francesco Lotoro, appassionato e prezioso studioso di letteratura musicale concentrazionaria, ha squarciato il buio, con un'affermazione all'apparenza banale: nel suo libro, non c'è solo spazio per la musica della Shoah. Trent'anni del suo lavoro sono stati spesi per testimoniare che, quando un uomo è privato della libertà (dal nazismo allo stalinismo, fino ai campi di prigionia del sudest asiatico), egli sa rendersi libero attraverso la musica. Che esprime in maniera incomprimibile la propria austera anarchia in ogni momento della storia. In altri termini, non esiste un primato del dolore. È il medesimo. Nel lager o nel buio di una foiba.
Allora, forse, abbiamo ancora una volta l'obbligo di tenerci per mano, di non mollare la stretta e di continuare a professare l'unica speranza possibile: che la forza di stare uniti, di essere comunità, debba essere la colomba che vola dall'Arca contemporanea. Abbiamo bisogno di sognare. Abbiamo necessità di abbracciarci. Abbiamo il dovere di riconoscerci comunità. Una scelta minoritaria che, però, ha il potere di spezzare il filo spinato, di rompere quel filo di ferro con cui tanti nostri compatrioti, in nome di un cieco odio discriminatorio, furono legati e lanciati nelle voragini della terra. Inghiottiti in un buio su cui per troppo tempo è calato il miope silenzio della storia».