Commento
Giorno della Memoria: la Shoah italiana mai raccontata dei coniugi Sansa
Una delle tante storie di donne sopravvissute ad Auschwitz
Andria - mercoledì 27 gennaio 2021
In occasione del "Giorno della Memoria 2021", raccogliamo un particolare contributo del dott. Giuseppe Dicuonzo Sansa, Dirigente Coordinatore per le Attività del Mezzogiorno dei Dalmati Italiani nel Mondo. Ci racconta una storia dimenticata, una Shoah italiana, di chi eroicamente ed in silenzio ha pagato per i crimini e le persecuzioni tedesche contro tanti nostri connazionali.
«Nel 76° anniversario della liberazione dei campi di concentramento, ho l'onore di parlare di mia zia Maria Perin in Sansa, una sopravvissuta che ha raccontato a noi familiari come arrivò ad Auschwitz nel settembre 1943 ed i terribili anni che seguirono.
I fatti:
Erano passati pochi giorni dall'armistizio dell'8 settembre del 1943. Erano circa le 19,00 e la zia Maria stava preparando la polenta per la cena. Due uomini bussarono alla porta e chiesero degli indumenti per loro, in quanto perseguitati dai tedeschi e quindi poter fuggire. Lei rispose di non avere niente e di avere solo quel poco di polenta che stava cucinando per i tre figli. Aggiunse che suo marito, mio zio Piero, fratello di mia madre, lavorava a Genova presso i Cantieri navali, mentre lei, lavorava ai Cantieri navali di Monfalcone e gli unici pantaloni che aveva erano quelli da lavoro indossati in quel momento. Quegli uomini venivano chiamati "repubblichini" o qualcosa di simile; non erano né dalla parte dei tedeschi, né dalla parte dei partigiani; facevano il doppio gioco.
Un sabato lo zio Piero rientrò da Genova in quanto non riusciva a stare lontano da casa. Il giorno successivo, la domenica tra le ore dieci e le ore undici dopo essere tornati a casa dalla messa con i tre figlioletti, trovarono davanti all'ingresso alcuni militari tedeschi, tra quali c'erano uno dei due soldati che sere prima erano venuti a chiedere degli abiti. Furono entrambi fermati e chieste le generalità. Furono accusati di aiutare i partigiani e, come prigionieri politici, furono presi e portati via. I figli (miei cugini) di quattro, otto e undici anni cominciarono a piangere ed a inseguire le camionette…. Furono portati nel carcere del Coroneo a Trieste e, da quel momento, furono per sempre separati.
Lo zio fu internato nel campo di concentramento di Bergen Belsen, adibito fino al 1943 unicamente a campo per prigionieri di guerra: negli anni che seguirono vi vennero internati anche ebrei, criminali comuni, prigionieri politici, zingari, testimoni di Geova ed omosessuali. Nel campo morirono circa 50.000 persone tra le quali lo zio che in esso trovò la morte e fu seppellito nel cimitero di Rostock K1 a Ravensbruck.
La zia invece fu internata ad Auschwitz e, sei mesi prima della liberazione, era quasi arrivato il suo turno per la camera a gas e l'appello la salvò. I tedeschi chiesero infatti chi sapeva lavorare; lei sapeva fare motori elettrici e questa sua capacità la sottrasse alla morte. Fu utilizzata ai lavori forzati presso lo stabilimento della Osram con turni di lavoro massacranti e con una semplice razione giornaliera di brodaglia e patate, riuscendo a mangiare di nascosto delle radici che trovava quando veniva utilizzata per scavare delle fosse.
Dopo ventidue lunghi mesi di prigionia, americani e russi la liberarono con i pochi superstiti rimasti.
Dopo un estenuante viaggio arrivò finalmente in Italia e quando giunse nei pressi della sua abitazione, chiese a qualcuno se conosceva la sua famiglia e proprio qualcuno corse ad avvisare suo fratello che andò in bicicletta alla stazione più vicina e la portò a casa. Appena entrò abbracciò tutti i suoi familiari e andò in camera con i bambini. Si abbracciò tra le lacrime e raccomandò ai suoi figli di non parlare mai male del popolo tedesco. Lei non avrebbe mai accettato di sentire una sola parola contro di loro. Certo questa sua frase avrebbe scioccato chiunque. La sua forza d'animo era immensa: il popolo tedesco non era colpevole, era stato obbligato. La sua fede, e non si intende fede cristiana, ma fiducia anzi certezza di ritornare a casa, la sostenne per tutta la durata della prigionia.
Fu restia nel raccontare le crudeltà vissute nel campo di concentramento; diceva sempre: chi non l'ha vissute, non sarebbe mai riuscito a capire cosa siano state veramente. Non volle mai raccontare tutte le crudeltà vissute nel campo di concentramento. Riuscimmo a far raccontare solo alcuni episodi per sdrammatizzare come quello di essersi costruita con del cartoncino trovato chissà dove delle carte da gioco, per i solitari. Oppure ricordò di un'ebrea polacca che per salvarsi aveva mangiato i suoi documenti.
Un episodio è rimasto indelebile, accaduto dopo alcuni anni dalla liberazione: si trovava al solito distributore di benzina e il benzinaio vide che la zia indossava un vestito a maniche corte e lo sguardo dell'uomo si fissò sul suo braccio. Egli impallidì, poi diventò rosso, quasi sudava sangue!!! La abbracciò a lungo poi le disse ; "Sei stata ad Auschwitz" ; il numero sul suo braccio gli aveva svelato il suo passato, quel numero che fu il suo nome per due anni, segno indelebile della crudeltà dell'uomo. Anche lui era stato prigioniero in campo di concentramento. Si era salvato ma da allora aveva avuto degli incubi frequenti e nessuno riusciva a trovare la cura. Per guarire sarebbe stato necessario uno shock pari a quello che aveva vissuto. Ecco che il numero visto sul braccio della zia lo fece guarire. Episodio significativo, per capire cos'era accaduto veramente da parte di chi l'aveva vissuto e l'aveva sofferto.
Comunque, la zia, dopo la prigionia riprese a lavorare nei Cantieri navali di Monfalcone con il grado di Capo Gruppo Squadra. Ma, nel 1970, dopo essere riuscita a sopravvivere ai campi di concentramento, alla guerra e tutto il resto, non riuscì a sconfiggere la malattia mortale che la colpì e che la consumò a poco a poco allontanandola (questa volta sì per sempre) dai suoi cari.
«Nel 76° anniversario della liberazione dei campi di concentramento, ho l'onore di parlare di mia zia Maria Perin in Sansa, una sopravvissuta che ha raccontato a noi familiari come arrivò ad Auschwitz nel settembre 1943 ed i terribili anni che seguirono.
I fatti:
Erano passati pochi giorni dall'armistizio dell'8 settembre del 1943. Erano circa le 19,00 e la zia Maria stava preparando la polenta per la cena. Due uomini bussarono alla porta e chiesero degli indumenti per loro, in quanto perseguitati dai tedeschi e quindi poter fuggire. Lei rispose di non avere niente e di avere solo quel poco di polenta che stava cucinando per i tre figli. Aggiunse che suo marito, mio zio Piero, fratello di mia madre, lavorava a Genova presso i Cantieri navali, mentre lei, lavorava ai Cantieri navali di Monfalcone e gli unici pantaloni che aveva erano quelli da lavoro indossati in quel momento. Quegli uomini venivano chiamati "repubblichini" o qualcosa di simile; non erano né dalla parte dei tedeschi, né dalla parte dei partigiani; facevano il doppio gioco.
Un sabato lo zio Piero rientrò da Genova in quanto non riusciva a stare lontano da casa. Il giorno successivo, la domenica tra le ore dieci e le ore undici dopo essere tornati a casa dalla messa con i tre figlioletti, trovarono davanti all'ingresso alcuni militari tedeschi, tra quali c'erano uno dei due soldati che sere prima erano venuti a chiedere degli abiti. Furono entrambi fermati e chieste le generalità. Furono accusati di aiutare i partigiani e, come prigionieri politici, furono presi e portati via. I figli (miei cugini) di quattro, otto e undici anni cominciarono a piangere ed a inseguire le camionette…. Furono portati nel carcere del Coroneo a Trieste e, da quel momento, furono per sempre separati.
Lo zio fu internato nel campo di concentramento di Bergen Belsen, adibito fino al 1943 unicamente a campo per prigionieri di guerra: negli anni che seguirono vi vennero internati anche ebrei, criminali comuni, prigionieri politici, zingari, testimoni di Geova ed omosessuali. Nel campo morirono circa 50.000 persone tra le quali lo zio che in esso trovò la morte e fu seppellito nel cimitero di Rostock K1 a Ravensbruck.
La zia invece fu internata ad Auschwitz e, sei mesi prima della liberazione, era quasi arrivato il suo turno per la camera a gas e l'appello la salvò. I tedeschi chiesero infatti chi sapeva lavorare; lei sapeva fare motori elettrici e questa sua capacità la sottrasse alla morte. Fu utilizzata ai lavori forzati presso lo stabilimento della Osram con turni di lavoro massacranti e con una semplice razione giornaliera di brodaglia e patate, riuscendo a mangiare di nascosto delle radici che trovava quando veniva utilizzata per scavare delle fosse.
Dopo ventidue lunghi mesi di prigionia, americani e russi la liberarono con i pochi superstiti rimasti.
Dopo un estenuante viaggio arrivò finalmente in Italia e quando giunse nei pressi della sua abitazione, chiese a qualcuno se conosceva la sua famiglia e proprio qualcuno corse ad avvisare suo fratello che andò in bicicletta alla stazione più vicina e la portò a casa. Appena entrò abbracciò tutti i suoi familiari e andò in camera con i bambini. Si abbracciò tra le lacrime e raccomandò ai suoi figli di non parlare mai male del popolo tedesco. Lei non avrebbe mai accettato di sentire una sola parola contro di loro. Certo questa sua frase avrebbe scioccato chiunque. La sua forza d'animo era immensa: il popolo tedesco non era colpevole, era stato obbligato. La sua fede, e non si intende fede cristiana, ma fiducia anzi certezza di ritornare a casa, la sostenne per tutta la durata della prigionia.
Fu restia nel raccontare le crudeltà vissute nel campo di concentramento; diceva sempre: chi non l'ha vissute, non sarebbe mai riuscito a capire cosa siano state veramente. Non volle mai raccontare tutte le crudeltà vissute nel campo di concentramento. Riuscimmo a far raccontare solo alcuni episodi per sdrammatizzare come quello di essersi costruita con del cartoncino trovato chissà dove delle carte da gioco, per i solitari. Oppure ricordò di un'ebrea polacca che per salvarsi aveva mangiato i suoi documenti.
Un episodio è rimasto indelebile, accaduto dopo alcuni anni dalla liberazione: si trovava al solito distributore di benzina e il benzinaio vide che la zia indossava un vestito a maniche corte e lo sguardo dell'uomo si fissò sul suo braccio. Egli impallidì, poi diventò rosso, quasi sudava sangue!!! La abbracciò a lungo poi le disse ; "Sei stata ad Auschwitz" ; il numero sul suo braccio gli aveva svelato il suo passato, quel numero che fu il suo nome per due anni, segno indelebile della crudeltà dell'uomo. Anche lui era stato prigioniero in campo di concentramento. Si era salvato ma da allora aveva avuto degli incubi frequenti e nessuno riusciva a trovare la cura. Per guarire sarebbe stato necessario uno shock pari a quello che aveva vissuto. Ecco che il numero visto sul braccio della zia lo fece guarire. Episodio significativo, per capire cos'era accaduto veramente da parte di chi l'aveva vissuto e l'aveva sofferto.
Comunque, la zia, dopo la prigionia riprese a lavorare nei Cantieri navali di Monfalcone con il grado di Capo Gruppo Squadra. Ma, nel 1970, dopo essere riuscita a sopravvivere ai campi di concentramento, alla guerra e tutto il resto, non riuscì a sconfiggere la malattia mortale che la colpì e che la consumò a poco a poco allontanandola (questa volta sì per sempre) dai suoi cari.