Associazioni
Giorno del Ricordo, Barchetta: «Foibe in un contesto storico complesso»
Intervento del presidente dell'associazione Puntoit
Andria - martedì 9 febbraio 2016
Il presidente dell'Associazione Puntoit Andrea Barchetta, in occasione del "Giorno del Ricordo", ha voluto esprimere le proprie riflessioni sulle Foibe e sulla nuova teoria della violenza di stato.
«La memoria e la politica della memoria sono indispensabili nella tessitura di un Paese. Ma un uso disinvolto della memoria può portare a cortocircuiti in cui vanno a confliggere legittimazioni, o peggio, posizioni di coloritura ideologica astoriche. Ciò appare tanto più vero se si osserva come l'uso disinvolto della memoria porti ad appiattimenti del quadro delle vicende che si vanno a ricordare, a situazioni senza contorni e sfondi o, al contrario, ad esasperazioni colpevoli nei toni. La memoria ha diritto ad una sua dimensione autonoma nei confronti della storia? Questione difficilissima. Ancor di più se ci si riferisce alla questione delle Foibe e dell'esodo giuliano-dalmata. Il massacro delle foibe si inserisce in un contesto storico assai complesso ed eterogeneo. Da una parte esso costituisce l'epilogo di una lunga lotta per il predominio sull'Adriatico orientale, che fu conteso da popolazioni slave (per la maggior parte croate, slovene e serbe) e italiane; tale lotta si inserisce all'interno di un fenomeno più ampio legato all'affermarsi degli Stati Nazionali successivamente ai moti rivoluzionari del 1848. Dall' altra parte invece vi sono le conseguenze delle due guerre mondiali. I successivi episodi legati alle vicende delle due guerre mondiali sono ormai note. La nuova sistemazione territoriale, al termine della Grande Guerra non contribuì ovviamente ad una convivenza pacifica, in quei territori, tra italiani e slavi. Tutte queste tensioni politiche, etniche, sociali e culturali conobbero l'ultima e definitiva valvola di sfogo con la Seconda Guerra Mondiale, la quale vide nel teatro jugoslavo-balcanico uno dei fronti più complessi e violenti. Ciò è evidente se, ad esempio si pensa alle operazioni militari condotte dai partigiani jugoslavi comunisti guidati da Tito, che combatterono per estendere i confini geografici della Jugoslavia fino alla città di Trieste per favorire l'avanzata militare del loro esercito e preparare il terreno per la futura costituzione dello stato comunista jugoslavo. È quest'ultimo aspetto ad esser oggi meritevole di ulteriori approfondimenti. Se le cose stanno così allora le stragi delle foibe furono "violenza di Stato". A dimostrazione di quanto detto c'è il lavoro della commissione italo-slovena presieduta dal prof. Giorgio Conetti e dalla sua collega slovena Milica Kacin Wohinz, e pubblicata dal Corriere della Sera il 4 aprile 2001. Nella relazione vengono minuziosamente elencate le colpe del fascismo, accusato di aver cercato di snazionalizzare le minoranze slovene e croate presenti nella Venezia Giulia con una politica repressiva assai brutale, il cui intento finale era quello di arrivare alla bonifica etnica della regione. Ma altrettanto severo è il giudizio sulle violenze compiute, dopo l'8 settembre 1943 e la cacciata dei tedeschi dalla Venezia Giulia, dai partigiani comunisti di Tito ai danni degli italiani: si parla di molte migliaia di arresti, si quantificano in centinaia le persone che trovarono la morte nelle foibe (soltanto per quanto riguarda la Slovenia, Croazia esclusa), si ricordano le deportazioni di un gran numero di militari e civili nelle carceri e nei campi di prigionia creati in Jugoslavia. E si ammette, per la prima volta da parte slovena, che quella dei partigiani titini fu una violenza di Stato. Viene, inoltre, ricostruito l'esodo degli italiani dall'Istria nel dopoguerra, oppressi da un regime di natura totalitaria che impediva anche la libera espressione dell'identità nazionale. Sono questi alcuni fra i passaggi più significativi della relazione ufficiale redatta dopo sette anni di lavoro dalla commissione italo-slovena istituita dai rispettivi governi per ricostruire la cruenta e controversa storia dei rapporti tra i due Paesi. Siamo oggi soltanto agli inizi di un lungo percorso di ricerca, ma un dato di fondo sembra già abbastanza chiaro. A monte della repressione c'era un disegno politico preciso, elaborato ai massimi livelli decisionali e ben espresso nelle indicazioni impartite nella primavera del 1945 da Franc Leskovsek nel corso di una seduta del Comitato centrale del Partito comunista sloveno e nei dispacci inviati da Edvard Kardelj ai capi sloveni. Si trattava di un programma assai esplicito, la cui sostanza politica era resa evidente dall'individuazione del nemico da eliminare: non certo gli «italiani» in quanto tali come vorrebbero i sostenitori della tesi dello sterminio etnico ma i reazionari, termine che nel linguaggio dei comunisti sloveni del tempo (lo stesso avvenne anche in area croata) si sovrapponeva spesso a quello di «fascisti», per coprire tutte le posizioni politiche non riconducibili a quelle del Fronte di liberazione (Osvobodilna Fronta, OF), con particolare riferimento al nodo annessione alla Jugoslavia - costruzione del socialismo. Oggi quindi siamo sicuramente di fronte a un allargamento del campo di indagine e a un affinamento degli strumenti di analisi; tutto ciò ha indubbiamente portato a un arricchimento delle prospettive di ricerca. Quest'ultima griglia di lettura del fenomeno delle foibe non va assunta però in termini schematici, ma piuttosto come un filo conduttore, attorno al quale è possibile comporre un quadro interpretativo sufficientemente organico e articolato. Questa visione di insieme è forse l'unica che può costituire uno dei fondamenti per la costruzione di una memoria condivisa e la realizzazione di quel riscatto storico nei confronti di quanti furono costretti a subire l'oblio e la violenza».
«La memoria e la politica della memoria sono indispensabili nella tessitura di un Paese. Ma un uso disinvolto della memoria può portare a cortocircuiti in cui vanno a confliggere legittimazioni, o peggio, posizioni di coloritura ideologica astoriche. Ciò appare tanto più vero se si osserva come l'uso disinvolto della memoria porti ad appiattimenti del quadro delle vicende che si vanno a ricordare, a situazioni senza contorni e sfondi o, al contrario, ad esasperazioni colpevoli nei toni. La memoria ha diritto ad una sua dimensione autonoma nei confronti della storia? Questione difficilissima. Ancor di più se ci si riferisce alla questione delle Foibe e dell'esodo giuliano-dalmata. Il massacro delle foibe si inserisce in un contesto storico assai complesso ed eterogeneo. Da una parte esso costituisce l'epilogo di una lunga lotta per il predominio sull'Adriatico orientale, che fu conteso da popolazioni slave (per la maggior parte croate, slovene e serbe) e italiane; tale lotta si inserisce all'interno di un fenomeno più ampio legato all'affermarsi degli Stati Nazionali successivamente ai moti rivoluzionari del 1848. Dall' altra parte invece vi sono le conseguenze delle due guerre mondiali. I successivi episodi legati alle vicende delle due guerre mondiali sono ormai note. La nuova sistemazione territoriale, al termine della Grande Guerra non contribuì ovviamente ad una convivenza pacifica, in quei territori, tra italiani e slavi. Tutte queste tensioni politiche, etniche, sociali e culturali conobbero l'ultima e definitiva valvola di sfogo con la Seconda Guerra Mondiale, la quale vide nel teatro jugoslavo-balcanico uno dei fronti più complessi e violenti. Ciò è evidente se, ad esempio si pensa alle operazioni militari condotte dai partigiani jugoslavi comunisti guidati da Tito, che combatterono per estendere i confini geografici della Jugoslavia fino alla città di Trieste per favorire l'avanzata militare del loro esercito e preparare il terreno per la futura costituzione dello stato comunista jugoslavo. È quest'ultimo aspetto ad esser oggi meritevole di ulteriori approfondimenti. Se le cose stanno così allora le stragi delle foibe furono "violenza di Stato". A dimostrazione di quanto detto c'è il lavoro della commissione italo-slovena presieduta dal prof. Giorgio Conetti e dalla sua collega slovena Milica Kacin Wohinz, e pubblicata dal Corriere della Sera il 4 aprile 2001. Nella relazione vengono minuziosamente elencate le colpe del fascismo, accusato di aver cercato di snazionalizzare le minoranze slovene e croate presenti nella Venezia Giulia con una politica repressiva assai brutale, il cui intento finale era quello di arrivare alla bonifica etnica della regione. Ma altrettanto severo è il giudizio sulle violenze compiute, dopo l'8 settembre 1943 e la cacciata dei tedeschi dalla Venezia Giulia, dai partigiani comunisti di Tito ai danni degli italiani: si parla di molte migliaia di arresti, si quantificano in centinaia le persone che trovarono la morte nelle foibe (soltanto per quanto riguarda la Slovenia, Croazia esclusa), si ricordano le deportazioni di un gran numero di militari e civili nelle carceri e nei campi di prigionia creati in Jugoslavia. E si ammette, per la prima volta da parte slovena, che quella dei partigiani titini fu una violenza di Stato. Viene, inoltre, ricostruito l'esodo degli italiani dall'Istria nel dopoguerra, oppressi da un regime di natura totalitaria che impediva anche la libera espressione dell'identità nazionale. Sono questi alcuni fra i passaggi più significativi della relazione ufficiale redatta dopo sette anni di lavoro dalla commissione italo-slovena istituita dai rispettivi governi per ricostruire la cruenta e controversa storia dei rapporti tra i due Paesi. Siamo oggi soltanto agli inizi di un lungo percorso di ricerca, ma un dato di fondo sembra già abbastanza chiaro. A monte della repressione c'era un disegno politico preciso, elaborato ai massimi livelli decisionali e ben espresso nelle indicazioni impartite nella primavera del 1945 da Franc Leskovsek nel corso di una seduta del Comitato centrale del Partito comunista sloveno e nei dispacci inviati da Edvard Kardelj ai capi sloveni. Si trattava di un programma assai esplicito, la cui sostanza politica era resa evidente dall'individuazione del nemico da eliminare: non certo gli «italiani» in quanto tali come vorrebbero i sostenitori della tesi dello sterminio etnico ma i reazionari, termine che nel linguaggio dei comunisti sloveni del tempo (lo stesso avvenne anche in area croata) si sovrapponeva spesso a quello di «fascisti», per coprire tutte le posizioni politiche non riconducibili a quelle del Fronte di liberazione (Osvobodilna Fronta, OF), con particolare riferimento al nodo annessione alla Jugoslavia - costruzione del socialismo. Oggi quindi siamo sicuramente di fronte a un allargamento del campo di indagine e a un affinamento degli strumenti di analisi; tutto ciò ha indubbiamente portato a un arricchimento delle prospettive di ricerca. Quest'ultima griglia di lettura del fenomeno delle foibe non va assunta però in termini schematici, ma piuttosto come un filo conduttore, attorno al quale è possibile comporre un quadro interpretativo sufficientemente organico e articolato. Questa visione di insieme è forse l'unica che può costituire uno dei fondamenti per la costruzione di una memoria condivisa e la realizzazione di quel riscatto storico nei confronti di quanti furono costretti a subire l'oblio e la violenza».