Religioni
Appello ai politici di Don Riccardo Agresti
"Attenuare la violenza e le rivolte dei detenuti nelle carceri con sistemi rieducativi"
Andria - domenica 6 settembre 2020
10.53
In riferimento all'ultimo increscioso episodio di rivolta nel carcere di Bari, avvenuto venerdì 4 settembre, Don Riccardo Agresti responsabile del progetto Diocesano "Senza Sbarre" ha dichiarato: «Premesso che ogni protesta attraverso la violenza è solo da condannare e non porterà a nessun risultato, ma è anche vero che la condizione di sovraffollamento e di degrado in cui versano i 189 penitenziari italiani, dove vivono 61.230 persone a fronte di una capienza di 50.931 posti, con un tasso di sovraffollamento medio del 120% è gravissima.
Non si può strumentalizzare quello che è successo all'interno del carcere di Bari. Ogni rivolta è sempre da deplorare ed in ognuna di queste c'è sempre chi vuole cavalcare l'onda, ma non è ammissibile che politici intervengano per dare delle soluzioni con delle formulette che possono essere magiche e parlare alle pance della gente. Non si possono potenziare ulteriormente le carceri solo di agenti penitenziari: dove è necessario bisogna farlo, ma ciò che manca all'interno delle carceri è il potenziamento di educatori e di volontari che sono solo il 2,17% in relazione alla popolazione carceraria. Bisognerebbe portare ad un rapporto di 1 a 1 in modo tale da far capire che cosa sta succedendo con il Coronavirus. Viceversa, i detenuti sono stati abbandonati a se stessi, senza informazioni, senza più colloqui visivi con i parenti, niente più visite dei volontari, non entra più un prete volontario, con gli agenti che sono tesi, impauriti. Ma capiamo che c'è una sofferenza incredibile? Basterebbe solo un uomo che soffre perché noi ce ne dobbiamo preoccupare, invece quell'uomo è abbandonato a se stesso. Allora mi rivolgo ai politici ribadendo di abbandonare la strada del parlare alle pance delle persone, perché così facendo ne usciamo tutti sconfitti. Facciamo piani rieducativi, finanziamo i volontari in carcere e i progetti di misura alternativa al carcere di comunità. Non bisogna finanziare le aziende che prendono i detenuti al loro interno, perchè potrebbe essere insufficiente, ma potenziamo le comunità che fanno un lavoro estenuante per rieducare il condannato a prendere coscienza del danno che ha commesso, delle lacrime che ha fatto versare alle vittime, in modo tale da ridurre le distanze tra danno e vittima e cercare di capire che la recidiva deve essere abbassata. Oggi la recidiva è sotto il 70% per cento di persone che ritornano a delinquere, invece noi vediamo capovolta la statistica nella comunità "Senza Sbarre" dove abbiamo 9 affidati su 10 che vogliono rimanere nella struttura".
Ricordiamo che la legge di riforma carceraria del 1975, fu emanata con lo scopo di promuovere un modello di giustizia riabilitativa, imperniata sul valore della persona e sulla progressiva reintegrazione sociale degli adulti sottoposti a carcerazione e internamento. Il punti nodali della riforma penitenziaria del 1975 riguardano, quindi, il problema dell'umanizzazione del trattamento penitenziario e quello della finalizzazione della pena detentiva al recupero sociale del reo; la suddetta norma indica le strategie da attuarsi attraverso appropriati interventi educativi e riabilitativi, mette in contatto il carcere con la società esterna, introduce la partecipazione del volontariato e la collaborazione con i servizi socio-sanitari del territorio, affidando la gestione e il coordinamento di queste attività a una nuova figura professionale, l'educatore penitenziario.
La legge era legata a concezioni derivate dall'ambito religioso o da quello medico, cioè rieducazione come emenda del condannato, come purificazione dal male commesso, oppure come una serie di interventi volti ad estirpare ed eliminare le cause della mal vivenza. A ciò ne è derivato una lenta e tardiva attuazione dell'ordinamento ed un altrettanto difficile inserimento degli educatori.
Non si può strumentalizzare quello che è successo all'interno del carcere di Bari. Ogni rivolta è sempre da deplorare ed in ognuna di queste c'è sempre chi vuole cavalcare l'onda, ma non è ammissibile che politici intervengano per dare delle soluzioni con delle formulette che possono essere magiche e parlare alle pance della gente. Non si possono potenziare ulteriormente le carceri solo di agenti penitenziari: dove è necessario bisogna farlo, ma ciò che manca all'interno delle carceri è il potenziamento di educatori e di volontari che sono solo il 2,17% in relazione alla popolazione carceraria. Bisognerebbe portare ad un rapporto di 1 a 1 in modo tale da far capire che cosa sta succedendo con il Coronavirus. Viceversa, i detenuti sono stati abbandonati a se stessi, senza informazioni, senza più colloqui visivi con i parenti, niente più visite dei volontari, non entra più un prete volontario, con gli agenti che sono tesi, impauriti. Ma capiamo che c'è una sofferenza incredibile? Basterebbe solo un uomo che soffre perché noi ce ne dobbiamo preoccupare, invece quell'uomo è abbandonato a se stesso. Allora mi rivolgo ai politici ribadendo di abbandonare la strada del parlare alle pance delle persone, perché così facendo ne usciamo tutti sconfitti. Facciamo piani rieducativi, finanziamo i volontari in carcere e i progetti di misura alternativa al carcere di comunità. Non bisogna finanziare le aziende che prendono i detenuti al loro interno, perchè potrebbe essere insufficiente, ma potenziamo le comunità che fanno un lavoro estenuante per rieducare il condannato a prendere coscienza del danno che ha commesso, delle lacrime che ha fatto versare alle vittime, in modo tale da ridurre le distanze tra danno e vittima e cercare di capire che la recidiva deve essere abbassata. Oggi la recidiva è sotto il 70% per cento di persone che ritornano a delinquere, invece noi vediamo capovolta la statistica nella comunità "Senza Sbarre" dove abbiamo 9 affidati su 10 che vogliono rimanere nella struttura".
Ricordiamo che la legge di riforma carceraria del 1975, fu emanata con lo scopo di promuovere un modello di giustizia riabilitativa, imperniata sul valore della persona e sulla progressiva reintegrazione sociale degli adulti sottoposti a carcerazione e internamento. Il punti nodali della riforma penitenziaria del 1975 riguardano, quindi, il problema dell'umanizzazione del trattamento penitenziario e quello della finalizzazione della pena detentiva al recupero sociale del reo; la suddetta norma indica le strategie da attuarsi attraverso appropriati interventi educativi e riabilitativi, mette in contatto il carcere con la società esterna, introduce la partecipazione del volontariato e la collaborazione con i servizi socio-sanitari del territorio, affidando la gestione e il coordinamento di queste attività a una nuova figura professionale, l'educatore penitenziario.
La legge era legata a concezioni derivate dall'ambito religioso o da quello medico, cioè rieducazione come emenda del condannato, come purificazione dal male commesso, oppure come una serie di interventi volti ad estirpare ed eliminare le cause della mal vivenza. A ciò ne è derivato una lenta e tardiva attuazione dell'ordinamento ed un altrettanto difficile inserimento degli educatori.