Un pezzo di Andria sul Monte Rosa, nella biblioteca più alta d'Europa del rifugio Margherita (4552 mt.)
Michele Palumbo con il suo “Il Taccuino di Castel del Monte” e Vincenzo Rutigliano con “Andria e L'Unità d' Italia”
venerdì 5 ottobre 2018
13.48
di Chiara e Vincenzo Rutigliano
Ci pensavo da tempo: salire sul Monte Rosa, sul rifugio Capanna Regina Margherita il più alto d'Europa, a 4552 metri, per fare lì quello che avevo letto anni prima in un articolo sul Corriere della Sera. Ovvero scegliere un libro, sfogliarlo e leggerlo tra le nuvole, con un occhio alle pagine e l'altro al panorama, tra cime lontane e cielo. Un libro semplice, da leggere in un'ora, al massimo un'ora e mezza, per poi scendere a quote più "urbane" perchè il mal di montagna sarebbe stato l'avversario da battere. Avevo letto di quella che è stata definita la biblioteca più alta d'Europa nel 2004, il 4 agosto, qualche giorno prima della sua inaugurazione, in un articolo a tutta pagina su Il Corriere della Sera. E per chi, come me, sognava e sogna un tour tra le biblioteche più grandi e più antiche del mondo, era un richiamo irresistibile. Soprattutto perchè volevo andare a leggere il libretto su Andria che avevo spedito, a mia volta, al Rifugio nei mesi successivi all'inaugurazione. Dopo vari tentativi per associare all'impresa altri amici – qualche sportivo troppo terrestre, cioè troppo innamorato delle basse quote, o un amico di infanzia preso sì dai monti, ma solo da quelli della cinta trentina - rompo gli indugi. Con un' idea in più. Non solo leggere lì il libretto inviato a suo tempo, ma anche portare con me altri due libri, ugualmente legati alla mia città, uno dei quali di un andriese speciale. Per questo il mio "parto" e "non parto" durato oltre 10 anni, è diventata decisione certa e forte proprio nell'ultimo anno e mezzo per onorare questa persona speciale. Al telefono, dal rifugio costruito sulla roccia del Monte Rosa 125 anni fa, mi consigliano di scegliere le settimane centrali di luglio, quelle con minori sorprese metereologiche. Un eufemismo trattandosi di alta montagna, e dunque il massimo della volubilità, come scoprirò più tardi. Questa volta la mia determinazione è granitica e anche a costo di salirci solo sul Margherita ci andrò. Non con moglie e figlie – come previsto inizialmente con quattro prenotazioni prima al Rifugio Gnifetti, a quota 3700, e poi al Margherita – ma con una delle due figlie. Con Chiara. Da quel momento l'esperienza diventa plurale ed il racconto non è più singolare. Per arrivare lì, però, avevamo solo 4 giorni. Il primo per arrivare a Milano, il secondo per salire a quota 1200 metri partendo da Alagna Valsesia, versante piemontese del Monte Rosa, ed iniziare l'adattamento all'alta montagna, adattamento che invece richiede molto più tempo. Da Alagna – piccolissimo centro alpino in provincia di Vercelli - partiamo dunque in due. Nel primissimo pomeriggio del 24 luglio inizia la salita accompagnati da una guida alpina del Corpo Guide della Scuola di Alpinismo di Alagna, appesantiti da zaini rigorosamente Quechua, gli stessi usati per un'altra piccola impresa, il camino di Santiago, quasi 130 kilometri a piedi in meno di 4 giorni, per venerare il Santo di Compostela ed assistere ad una indimenticabile Messa di Pasqua, con botafumeiro, nella Cattedrale galiziana costruita nel 1211. Con noi, come guida, nella salita in quota, un ragazzetto di nemmeno 30 anni, dal cognome profetico (almeno per me e per la mia formazione) Nicola Degasparis, che poi sarà decisivo per tutta la nostra impresa. Comincia la salita guidati dalla Madonna del Buon Cammino. Ci aspettano 7 kilometri tra rocce e ghiaccio, specie nella parte finale, complici le abbondanti nevicate di quest'inverno. Per salire, nella fase iniziale, conosciamo da vicino gli impianti del comprensorio del Monte Rosa Ski: entriamo dapprima in una cabinovia, poi in una seggiovia ed infine in una funivia, sino a Punta Indren. In un'ora passiamo da 1200 metri a 3260 metri di altitudine e dunque, in meno di un giorno, passiamo dai nostri 151 metri sul livello del mare di Andriaad un multiplo quasi infinito. Altro che quei 3-5 giorni che i manuali richiedono per acclimatarsi alle altitudini superiori ai 2500 metri, prima di salire ancora. Lasciamo gli impianti e tra rocce, neve, ghiaccio e piccoli camminamenti, alcuni protetti da funi, saliamo, passo dopo passo, con una fatica enorme, noi cittadini di città, al rifugio Gnifetti, a quota 3647 metri, dedicato all'abate Giovanni, parroco di Alagna, esploratore del Monte Rosa, il primo a scalarlo nel 1842 dalla Signalkuppe, cima che ora porta il suo nome. Il mal di montagna si fa sentire. Alla fatica fisica si accompagna lo stordimento provocato dall'ossigeno rarefatto e dalla pressione atmosferica. Dopo un altro sforzo, l'ennesimo, superiamo l'ultimo costone e arriviamo sulla punta del Monte Rosa dedicata all'abate. La temperatura è di pochi gradi sopra lo zero. Entriamo nel rifugio, realizzato come il Margherita dal Club Alpino Italiano, e scopriamo cosa è la montagna degli alpinisti. E' adattamento, è fatica, è sfida fisica e mentale, è muoversi tra cuccette piccolissime, servizi ridotti all'essenziale, poca acqua. E' muoversi in compagnia di 70 alpinisti, come quelli presenti quel giorno, il 24 luglio e poi il 25 luglio, quasi tutti stranieri: norvegesi, danesi, svedesi, tedeschi, inglesi, austriaci, polacchi. Ovviamente ci sono le guide alpine della zona, piemontesi o valdostani, nativi dei due versanti nei quali si divide il Rosa sul lato italiano. E tra i 70 anche noi due, due andriesi, che si muovono in questo rifugio che, nel 1874, era solo un piccolo bivacco prima di allargarsi con un secondo edifico nel 1896, dieci anni dopo con un terzo ancora più grande, e di venire ricostruito, dopo le due guerre mondiali, nel 1967. Dovunque legno, tubi per il riscaldamento, cavi di acciaio, due rampe di scale, corridoi pieni di scarponi, picozze, funi, finestre piccolissime attraverso cui guardiamo le nuvole e, in lontananza, un panorama bellissimo, il tramonto. Poi la cena, e alle 22 a letto. Chiara, stordita dal mal di montagna, si riprende un po' alla volta. E riuscirà a dormire. Per me uno degli effetti tipici del mal di montagna: l'insonnia. Poco prima dell'alba comiciano i primi movimenti. I rocciatori cominciano ad attezzarsi per uscire e salire, in parete, sul Rosa. Altri per seguire la strada sul ghiacciao che li porterà tra 4 e 6 ore, in media, al Margherita. La nostra sveglia ufficiale è alle 4 e mezza. Dopo la colazione siamo fuori dal Gnifetti. Comincia il rito dei ramponi da ghiaccio, da ancorare agli scarponi, che avevamo portato sulle spalle dal giorno prima. Non necessari il 24 luglio, sono indispensabili il giorno dopo, 25 luglio. Nicola ci aiuta. Partiamo. Dopo essere saliti di altri 300 metri, dopo quasi un'ora il tempo cambia, l'ossigeno è sempre più rarefatto, la fatica è impressionante. Salire ancora è pericoloso. La guida prende la decisione, inappellabile, come stabiliscono le regole di "ingaggio". Dobbiamo scendere. Troppo pericoloso proseguire. Dobbiamo scendere di quota. Subito. Comincia la discesa. Non cambia però una delle due ragioni per le quali siamo lì, insieme alla bellezza dell'impresa. Non ci saranno due andriesi il 25 luglio a leggere, sul Margherita, il libro spedito anni prima da uno dei due, né saranno loro a portare sul rifugio gli altri due libri nascosti nello zaino. Sarà la loro guida. Che lo farà appena possibile. Scesi a valle dopo quasi 4 ore strappiamo l'impegno d'onore di Nicola, che intanto ci racconta degli 8 anni passati al Margherita a lavorare, dei rifornimenti di acqua e viveri e dei bomboloni di gas portati lì in elicottero, dei suoi sport estremi (parapendio acrobatico). Sarà lui a portare sul Margherita, sulla Biblioteca più alta d'Europa, le due pubblicazioni portate nello zaino. Tutte e due sono fedeli al clichè delle altre pubblicazioni del Margherita: piccole, sobrie, godibili nella lettura, dunque non trattati o tomi enciclopedici, ma quasi libelli. E la scelta non è stata difficile. Così Nicola ha portato per noi sul Margherita "Il Taccuino di Castel del Monte" scritto da Michele Palumbo, l'amico giornalista scomparso poco più di un anno fa che così abbiamo voluto ulteriormente ricordare,insieme ad un premio giornalistico a lui dedicato, ed una mia pubblicazione su Andria ed il 150° anniversario dell'Unità d'Italia, una delle ricorrenze nelle quali la città si è identificata di più negli ultimi anni senza riserve, senza distinzioni, senza appartenenze perchè anche lì, a 4500 metri, si sfogliassero pagine di testimonianza sui legami tra Andria e Garibaldi, il suo primo parlamentare, passando per il ricordo della visita di un suo pro nipote; sul raduno nazionale dei Finanzieri italiani; sulla scopertura della Vittoria Alata al Monumento ai Caduti e così via. Il Taccuino di Michele Palumbo non è un libretto qualsiasi. Il nostro gesto è il gesto di chi vuole lasciare anche lì, ad alta quota, il ricordo sobrio di una persona speciale. Un gesto di attenzione – al pari di quello deciso dall'Ordine dei Giornalisti, da Assostampa e dal Circolo della Stampa della Bat di dedicargli un premio giornalistico – che ha anche un altro significato. Sò così di aver fatto felice, ne sono certo, anche la mia maestra, la maestra Ardito, a me molto cara e zia di Michele, nipote prediletto. Dal giorno in cui Nicola ha mantenuto la sua promessa – allungando così con le sue mani le nostre nel gesto di mettere anche queste due pubblicazioni tra quelle che sono già lì - la biblioteca più alta d'Europa, dedicata alla guida alpina Emilio Detomasi, scomparso nel 2002, ha due libri in più. E ci piace credere che a quella altitudine, dunque più vicino al cielo, potrà rileggerlo anche Michele Palumbo,ed il suo spirito.
Ci pensavo da tempo: salire sul Monte Rosa, sul rifugio Capanna Regina Margherita il più alto d'Europa, a 4552 metri, per fare lì quello che avevo letto anni prima in un articolo sul Corriere della Sera. Ovvero scegliere un libro, sfogliarlo e leggerlo tra le nuvole, con un occhio alle pagine e l'altro al panorama, tra cime lontane e cielo. Un libro semplice, da leggere in un'ora, al massimo un'ora e mezza, per poi scendere a quote più "urbane" perchè il mal di montagna sarebbe stato l'avversario da battere. Avevo letto di quella che è stata definita la biblioteca più alta d'Europa nel 2004, il 4 agosto, qualche giorno prima della sua inaugurazione, in un articolo a tutta pagina su Il Corriere della Sera. E per chi, come me, sognava e sogna un tour tra le biblioteche più grandi e più antiche del mondo, era un richiamo irresistibile. Soprattutto perchè volevo andare a leggere il libretto su Andria che avevo spedito, a mia volta, al Rifugio nei mesi successivi all'inaugurazione. Dopo vari tentativi per associare all'impresa altri amici – qualche sportivo troppo terrestre, cioè troppo innamorato delle basse quote, o un amico di infanzia preso sì dai monti, ma solo da quelli della cinta trentina - rompo gli indugi. Con un' idea in più. Non solo leggere lì il libretto inviato a suo tempo, ma anche portare con me altri due libri, ugualmente legati alla mia città, uno dei quali di un andriese speciale. Per questo il mio "parto" e "non parto" durato oltre 10 anni, è diventata decisione certa e forte proprio nell'ultimo anno e mezzo per onorare questa persona speciale. Al telefono, dal rifugio costruito sulla roccia del Monte Rosa 125 anni fa, mi consigliano di scegliere le settimane centrali di luglio, quelle con minori sorprese metereologiche. Un eufemismo trattandosi di alta montagna, e dunque il massimo della volubilità, come scoprirò più tardi. Questa volta la mia determinazione è granitica e anche a costo di salirci solo sul Margherita ci andrò. Non con moglie e figlie – come previsto inizialmente con quattro prenotazioni prima al Rifugio Gnifetti, a quota 3700, e poi al Margherita – ma con una delle due figlie. Con Chiara. Da quel momento l'esperienza diventa plurale ed il racconto non è più singolare. Per arrivare lì, però, avevamo solo 4 giorni. Il primo per arrivare a Milano, il secondo per salire a quota 1200 metri partendo da Alagna Valsesia, versante piemontese del Monte Rosa, ed iniziare l'adattamento all'alta montagna, adattamento che invece richiede molto più tempo. Da Alagna – piccolissimo centro alpino in provincia di Vercelli - partiamo dunque in due. Nel primissimo pomeriggio del 24 luglio inizia la salita accompagnati da una guida alpina del Corpo Guide della Scuola di Alpinismo di Alagna, appesantiti da zaini rigorosamente Quechua, gli stessi usati per un'altra piccola impresa, il camino di Santiago, quasi 130 kilometri a piedi in meno di 4 giorni, per venerare il Santo di Compostela ed assistere ad una indimenticabile Messa di Pasqua, con botafumeiro, nella Cattedrale galiziana costruita nel 1211. Con noi, come guida, nella salita in quota, un ragazzetto di nemmeno 30 anni, dal cognome profetico (almeno per me e per la mia formazione) Nicola Degasparis, che poi sarà decisivo per tutta la nostra impresa. Comincia la salita guidati dalla Madonna del Buon Cammino. Ci aspettano 7 kilometri tra rocce e ghiaccio, specie nella parte finale, complici le abbondanti nevicate di quest'inverno. Per salire, nella fase iniziale, conosciamo da vicino gli impianti del comprensorio del Monte Rosa Ski: entriamo dapprima in una cabinovia, poi in una seggiovia ed infine in una funivia, sino a Punta Indren. In un'ora passiamo da 1200 metri a 3260 metri di altitudine e dunque, in meno di un giorno, passiamo dai nostri 151 metri sul livello del mare di Andriaad un multiplo quasi infinito. Altro che quei 3-5 giorni che i manuali richiedono per acclimatarsi alle altitudini superiori ai 2500 metri, prima di salire ancora. Lasciamo gli impianti e tra rocce, neve, ghiaccio e piccoli camminamenti, alcuni protetti da funi, saliamo, passo dopo passo, con una fatica enorme, noi cittadini di città, al rifugio Gnifetti, a quota 3647 metri, dedicato all'abate Giovanni, parroco di Alagna, esploratore del Monte Rosa, il primo a scalarlo nel 1842 dalla Signalkuppe, cima che ora porta il suo nome. Il mal di montagna si fa sentire. Alla fatica fisica si accompagna lo stordimento provocato dall'ossigeno rarefatto e dalla pressione atmosferica. Dopo un altro sforzo, l'ennesimo, superiamo l'ultimo costone e arriviamo sulla punta del Monte Rosa dedicata all'abate. La temperatura è di pochi gradi sopra lo zero. Entriamo nel rifugio, realizzato come il Margherita dal Club Alpino Italiano, e scopriamo cosa è la montagna degli alpinisti. E' adattamento, è fatica, è sfida fisica e mentale, è muoversi tra cuccette piccolissime, servizi ridotti all'essenziale, poca acqua. E' muoversi in compagnia di 70 alpinisti, come quelli presenti quel giorno, il 24 luglio e poi il 25 luglio, quasi tutti stranieri: norvegesi, danesi, svedesi, tedeschi, inglesi, austriaci, polacchi. Ovviamente ci sono le guide alpine della zona, piemontesi o valdostani, nativi dei due versanti nei quali si divide il Rosa sul lato italiano. E tra i 70 anche noi due, due andriesi, che si muovono in questo rifugio che, nel 1874, era solo un piccolo bivacco prima di allargarsi con un secondo edifico nel 1896, dieci anni dopo con un terzo ancora più grande, e di venire ricostruito, dopo le due guerre mondiali, nel 1967. Dovunque legno, tubi per il riscaldamento, cavi di acciaio, due rampe di scale, corridoi pieni di scarponi, picozze, funi, finestre piccolissime attraverso cui guardiamo le nuvole e, in lontananza, un panorama bellissimo, il tramonto. Poi la cena, e alle 22 a letto. Chiara, stordita dal mal di montagna, si riprende un po' alla volta. E riuscirà a dormire. Per me uno degli effetti tipici del mal di montagna: l'insonnia. Poco prima dell'alba comiciano i primi movimenti. I rocciatori cominciano ad attezzarsi per uscire e salire, in parete, sul Rosa. Altri per seguire la strada sul ghiacciao che li porterà tra 4 e 6 ore, in media, al Margherita. La nostra sveglia ufficiale è alle 4 e mezza. Dopo la colazione siamo fuori dal Gnifetti. Comincia il rito dei ramponi da ghiaccio, da ancorare agli scarponi, che avevamo portato sulle spalle dal giorno prima. Non necessari il 24 luglio, sono indispensabili il giorno dopo, 25 luglio. Nicola ci aiuta. Partiamo. Dopo essere saliti di altri 300 metri, dopo quasi un'ora il tempo cambia, l'ossigeno è sempre più rarefatto, la fatica è impressionante. Salire ancora è pericoloso. La guida prende la decisione, inappellabile, come stabiliscono le regole di "ingaggio". Dobbiamo scendere. Troppo pericoloso proseguire. Dobbiamo scendere di quota. Subito. Comincia la discesa. Non cambia però una delle due ragioni per le quali siamo lì, insieme alla bellezza dell'impresa. Non ci saranno due andriesi il 25 luglio a leggere, sul Margherita, il libro spedito anni prima da uno dei due, né saranno loro a portare sul rifugio gli altri due libri nascosti nello zaino. Sarà la loro guida. Che lo farà appena possibile. Scesi a valle dopo quasi 4 ore strappiamo l'impegno d'onore di Nicola, che intanto ci racconta degli 8 anni passati al Margherita a lavorare, dei rifornimenti di acqua e viveri e dei bomboloni di gas portati lì in elicottero, dei suoi sport estremi (parapendio acrobatico). Sarà lui a portare sul Margherita, sulla Biblioteca più alta d'Europa, le due pubblicazioni portate nello zaino. Tutte e due sono fedeli al clichè delle altre pubblicazioni del Margherita: piccole, sobrie, godibili nella lettura, dunque non trattati o tomi enciclopedici, ma quasi libelli. E la scelta non è stata difficile. Così Nicola ha portato per noi sul Margherita "Il Taccuino di Castel del Monte" scritto da Michele Palumbo, l'amico giornalista scomparso poco più di un anno fa che così abbiamo voluto ulteriormente ricordare,insieme ad un premio giornalistico a lui dedicato, ed una mia pubblicazione su Andria ed il 150° anniversario dell'Unità d'Italia, una delle ricorrenze nelle quali la città si è identificata di più negli ultimi anni senza riserve, senza distinzioni, senza appartenenze perchè anche lì, a 4500 metri, si sfogliassero pagine di testimonianza sui legami tra Andria e Garibaldi, il suo primo parlamentare, passando per il ricordo della visita di un suo pro nipote; sul raduno nazionale dei Finanzieri italiani; sulla scopertura della Vittoria Alata al Monumento ai Caduti e così via. Il Taccuino di Michele Palumbo non è un libretto qualsiasi. Il nostro gesto è il gesto di chi vuole lasciare anche lì, ad alta quota, il ricordo sobrio di una persona speciale. Un gesto di attenzione – al pari di quello deciso dall'Ordine dei Giornalisti, da Assostampa e dal Circolo della Stampa della Bat di dedicargli un premio giornalistico – che ha anche un altro significato. Sò così di aver fatto felice, ne sono certo, anche la mia maestra, la maestra Ardito, a me molto cara e zia di Michele, nipote prediletto. Dal giorno in cui Nicola ha mantenuto la sua promessa – allungando così con le sue mani le nostre nel gesto di mettere anche queste due pubblicazioni tra quelle che sono già lì - la biblioteca più alta d'Europa, dedicata alla guida alpina Emilio Detomasi, scomparso nel 2002, ha due libri in più. E ci piace credere che a quella altitudine, dunque più vicino al cielo, potrà rileggerlo anche Michele Palumbo,ed il suo spirito.