Sanità pugliese: diritto ai buoni pasto e recupero arretrati. La FSI-USAE attiva le vertenze nelle Asl
Le fonti normative e regolamentari del diritto alla pausa e alla mensa
venerdì 3 maggio 2024
5.49
Interessa anche le Asl pugliesi, la questione del diritto ai buoni pasto e, per coloro che negli anni addietro non ne hanno potuto fruire, del pagamento della corrispondente indennità economica. Questioni che sono ancora oggetto di forte disputa con le Aziende sanitarie pubbliche, comprese quelle pugliesi, dove questa indennità non è riconosciuta come la Asl Bt, malgrado i diversi pronunciamenti che, in questi ultimi tempi, si sono susseguiti spesso a favore delle legittime istanze portate dai lavoratori.
Il tema interessa tutti quei dipendenti turnisti delle varie amministrazioni sanitarie che, svolgendo la propria prestazione secondo un turno superiore alle 6 ore, reclamano il riconoscimento del diritto alla percezione del buono pasto sostitutivo del servizio mensa, di cui non abbiano potuto fruire. Il Sindacato FSI-USAE sta attivando delle vertenze nelle Asl pugliesi, a favore dei propri iscritti, al fine di far riconoscere il diritto ai buoni pasto per chi lavora più di sei ore al giorno (o la notte).
Le fonti normative e regolamentari del diritto alla pausa e alla mensa.
Il diritto alla mensa per i dipendenti del comparto sanità trova la sua fonte normativa nell'art. 29 del CCNL 20.09.2001, integrativo del CCNL 07.04.1999 e modificato dall'art. 4 del CCNL del 31.07.2009, secondo il quale: "le aziende, in relazione al proprio assetto organizzativo e compatibilmente con le risorse disponibili, possono istituire mense di servizio o, in alternativa, garantire l'esercizio del diritto di mensa con modalità sostitutive. In ogni caso l'organizzazione e la gestione dei suddetti servizi, rientrano nell'autonomia gestionale delle aziende, mentre resta ferma la competenza del CCNL nella definizione delle regole in merito alla fruibilità e all'esercizio del diritto di mensa da parte dei lavoratori. Hanno diritto alla mensa tutti i dipendenti, ivi compresi quelli che prestano la propria attività in posizione di comando, nei giorni di effettiva presenza al lavoro, in relazione alla particolare organizzazione dell'orario. Il pasto va consumato al di fuori dell'orario di lavoro. Il tempo impiegato per il consumo del pasto è rilevato con i normali mezzi di controllo dell'orario e non deve essere superiore a 30 minuti. Le Regioni, sulla base di rilevazioni relative al costo della vita nei diversi ambiti regionali e al contesto sociosanitario di riferimento, possono fornire alle aziende indicazioni in merito alla valorizzazione – nel quadro delle risorse disponibili – dei servizi di mensa nel rispetto della partecipazione economica del dipendente finora prevista. Nel caso di erogazione dell'esercizio del diritto di mensa con modalità sostitutive, queste ultime non possono comunque avere un valore economico inferiore a quello in atto ed il dipendente e tenuto a contribuire nella misura di un quinto del costo unitario del pasto. Il pasto non è monetizzabile".
Con riferimento al più generale diritto alla pausa, l'art. 8 del D.Lgs. n. 66 del 2003 attribuisce un diritto al lavoratore così declinandolo: "Qualora l'orario di lavoro giornaliero ecceda il limite di sei ore il lavoratore deve beneficiare di un intervallo per pausa, le cui modalità e la cui durata sono stabilite dai contratti collettivi di lavoro, ai fini del recupero delle energie psico-fisiche e della eventuale consumazione del pasto anche al fine di attenuare il lavoro monotono e ripetitivo".
Attualmente, la disciplina di questo diritto risulta inserita, per il comparto, nel CCNL 2016-2018 laddove stabilisce che: "Qualora la prestazione di lavoro giornaliera ecceda le sei ore, il personale, purché non in turno, ha diritto a beneficiare di una pausa di almeno 30 minuti al fine del recupero delle energie psicofisiche e della eventuale consumazione del pasto, secondo la disciplina di cui all'art. 29 del CCNL integrativo del 20/9/2001 e all'art.4 del CCNL del 31/7/2009".
Lo stesso art. 4 della direttiva europea 2003/88 disciplina espressamente la nozione di pausa, obbligando gli Stati membri ad assumere le misure necessarie affinché ogni lavoratore benefici, qualora l'orario di lavoro giornaliero superi le 6 ore, di una pausa le cui modalità e, in particolare, la cui durata e condizioni di concessione sono fissate da contratti collettivi o accordi conclusi tra le parti sociali o, in loro assenza, dalla legislazione nazionale.
Le normative interne ed europee, quindi, non lasciano alcun dubbio, il buono pasto per chi lavora più di sei ore è un diritto.
L'orientamento della Corte di Cassazione.
Nei diversi precedenti pervenuti all'esame della Corte di Cassazione, quest'ultima ha sempre ribadito (da ultimo, con le pronunce n. 9206/2023 e n. 3524/2022), che nell'ambito del pubblico impiego privatizzato il riconoscimento del diritto al buono pasto non ha funzione retributiva, ma rappresenta unicamente un'agevolazione di carattere assistenziale collegata al rapporto di lavoro da un nesso meramente occasionale che, rientrando nell'organizzazione del lavoro, è finalizzata a conciliare le esigenze lavorative del servizio con quelle personali del dipendente.
Ciò significa che, laddove il turno ecceda quotidianamente il limite delle sei ore continuative, deve essere necessariamente prevista la fruizione da parte del lavoratore della pausa mensa, ciò garantendo quel reintegro delle energie psicofisiche spese nel lavoro, propedeutico a far sì che il dipendente possa poi proseguire nella sua prestazione in condizioni di sostanziale benessere.
Quindi, il buono pasto deve considerarsi un beneficio che non viene attribuito senza scopo, in quanto la sua corresponsione è finalizzata a far sì che, nell'ambito dell'organizzazione del lavoro, si possano conciliare le esigenze del servizio con le esigenze quotidiane del lavoratore, al quale viene così consentita – laddove non sia previsto un servizio mensa – la fruizione del pasto, i cui costi vengono assunti dall'Amministrazione, al fine di garantire allo stesso il benessere fisico necessario per la prosecuzione dell'attività lavorativa.
È stato infatti ripetutamente affermato che la fruizione del pasto, correlato al diritto alla mensa o al buono pasto sostitutivo – è prevista nell'ambito di un intervallo non lavorato poiché, diversamente, non sarebbe neppure possibile esercitare un controllo sulla sua durata, invece stabilita sia dalla contrattazione collettiva che, molto spesso, dai regolamenti aziendali integrativi.
Il tema interessa tutti quei dipendenti turnisti delle varie amministrazioni sanitarie che, svolgendo la propria prestazione secondo un turno superiore alle 6 ore, reclamano il riconoscimento del diritto alla percezione del buono pasto sostitutivo del servizio mensa, di cui non abbiano potuto fruire. Il Sindacato FSI-USAE sta attivando delle vertenze nelle Asl pugliesi, a favore dei propri iscritti, al fine di far riconoscere il diritto ai buoni pasto per chi lavora più di sei ore al giorno (o la notte).
Le fonti normative e regolamentari del diritto alla pausa e alla mensa.
Il diritto alla mensa per i dipendenti del comparto sanità trova la sua fonte normativa nell'art. 29 del CCNL 20.09.2001, integrativo del CCNL 07.04.1999 e modificato dall'art. 4 del CCNL del 31.07.2009, secondo il quale: "le aziende, in relazione al proprio assetto organizzativo e compatibilmente con le risorse disponibili, possono istituire mense di servizio o, in alternativa, garantire l'esercizio del diritto di mensa con modalità sostitutive. In ogni caso l'organizzazione e la gestione dei suddetti servizi, rientrano nell'autonomia gestionale delle aziende, mentre resta ferma la competenza del CCNL nella definizione delle regole in merito alla fruibilità e all'esercizio del diritto di mensa da parte dei lavoratori. Hanno diritto alla mensa tutti i dipendenti, ivi compresi quelli che prestano la propria attività in posizione di comando, nei giorni di effettiva presenza al lavoro, in relazione alla particolare organizzazione dell'orario. Il pasto va consumato al di fuori dell'orario di lavoro. Il tempo impiegato per il consumo del pasto è rilevato con i normali mezzi di controllo dell'orario e non deve essere superiore a 30 minuti. Le Regioni, sulla base di rilevazioni relative al costo della vita nei diversi ambiti regionali e al contesto sociosanitario di riferimento, possono fornire alle aziende indicazioni in merito alla valorizzazione – nel quadro delle risorse disponibili – dei servizi di mensa nel rispetto della partecipazione economica del dipendente finora prevista. Nel caso di erogazione dell'esercizio del diritto di mensa con modalità sostitutive, queste ultime non possono comunque avere un valore economico inferiore a quello in atto ed il dipendente e tenuto a contribuire nella misura di un quinto del costo unitario del pasto. Il pasto non è monetizzabile".
Con riferimento al più generale diritto alla pausa, l'art. 8 del D.Lgs. n. 66 del 2003 attribuisce un diritto al lavoratore così declinandolo: "Qualora l'orario di lavoro giornaliero ecceda il limite di sei ore il lavoratore deve beneficiare di un intervallo per pausa, le cui modalità e la cui durata sono stabilite dai contratti collettivi di lavoro, ai fini del recupero delle energie psico-fisiche e della eventuale consumazione del pasto anche al fine di attenuare il lavoro monotono e ripetitivo".
Attualmente, la disciplina di questo diritto risulta inserita, per il comparto, nel CCNL 2016-2018 laddove stabilisce che: "Qualora la prestazione di lavoro giornaliera ecceda le sei ore, il personale, purché non in turno, ha diritto a beneficiare di una pausa di almeno 30 minuti al fine del recupero delle energie psicofisiche e della eventuale consumazione del pasto, secondo la disciplina di cui all'art. 29 del CCNL integrativo del 20/9/2001 e all'art.4 del CCNL del 31/7/2009".
Lo stesso art. 4 della direttiva europea 2003/88 disciplina espressamente la nozione di pausa, obbligando gli Stati membri ad assumere le misure necessarie affinché ogni lavoratore benefici, qualora l'orario di lavoro giornaliero superi le 6 ore, di una pausa le cui modalità e, in particolare, la cui durata e condizioni di concessione sono fissate da contratti collettivi o accordi conclusi tra le parti sociali o, in loro assenza, dalla legislazione nazionale.
Le normative interne ed europee, quindi, non lasciano alcun dubbio, il buono pasto per chi lavora più di sei ore è un diritto.
L'orientamento della Corte di Cassazione.
Nei diversi precedenti pervenuti all'esame della Corte di Cassazione, quest'ultima ha sempre ribadito (da ultimo, con le pronunce n. 9206/2023 e n. 3524/2022), che nell'ambito del pubblico impiego privatizzato il riconoscimento del diritto al buono pasto non ha funzione retributiva, ma rappresenta unicamente un'agevolazione di carattere assistenziale collegata al rapporto di lavoro da un nesso meramente occasionale che, rientrando nell'organizzazione del lavoro, è finalizzata a conciliare le esigenze lavorative del servizio con quelle personali del dipendente.
Ciò significa che, laddove il turno ecceda quotidianamente il limite delle sei ore continuative, deve essere necessariamente prevista la fruizione da parte del lavoratore della pausa mensa, ciò garantendo quel reintegro delle energie psicofisiche spese nel lavoro, propedeutico a far sì che il dipendente possa poi proseguire nella sua prestazione in condizioni di sostanziale benessere.
Quindi, il buono pasto deve considerarsi un beneficio che non viene attribuito senza scopo, in quanto la sua corresponsione è finalizzata a far sì che, nell'ambito dell'organizzazione del lavoro, si possano conciliare le esigenze del servizio con le esigenze quotidiane del lavoratore, al quale viene così consentita – laddove non sia previsto un servizio mensa – la fruizione del pasto, i cui costi vengono assunti dall'Amministrazione, al fine di garantire allo stesso il benessere fisico necessario per la prosecuzione dell'attività lavorativa.
È stato infatti ripetutamente affermato che la fruizione del pasto, correlato al diritto alla mensa o al buono pasto sostitutivo – è prevista nell'ambito di un intervallo non lavorato poiché, diversamente, non sarebbe neppure possibile esercitare un controllo sulla sua durata, invece stabilita sia dalla contrattazione collettiva che, molto spesso, dai regolamenti aziendali integrativi.