"Niente sarà come prima": usciamo dall'individualismo e apriamo il cuore agli altri

Riflessione di Mons. Felice Bacco, Direttore Ufficio Comunicazioni della Diocesi di Andria e parroco Cattedrale di San Sabino a Canosa

lunedì 30 novembre 2020 12.38
"Niente sarà come prima" è forse l'espressione più frequentemente usata o pensata durante la prima ondata di emergenza Covid-19. Inizialmente stavamo vivendo un'esperienza sconvolgente che mai nessuno aveva immaginato potesse accadere, aggravata anche dalla paura che la misteriosa pandemia, nella progressiva e inarrestabile sequenza di contagi in ogni continente, suscitava nell'animo. Qualcuno con molta sincerità ha confessato che non aveva mai pensato fino a quel momento che la morte avrebbe potuto irrompere nella propria vita, devastandola negli affetti e nelle relazioni, e che molte certezze, prima date per scontate, stavano vacillando. Abbiamo vissuto la prima ondata epidemica anche con grande commozione e partecipazione: molti hanno espresso in modi diversi vicinanza e gratitudine a tutti gli operatori sanitari che, generosamente, hanno messo in pericolo anche la loro vita, in molti casi perdendola, pur di salvare i colpiti dal virus pandemico; sono stati intonati inni e canti di solidarietà fraterna, riecheggiati di casa in casa dai balconi e dai terrazzi. Ci siamo riscoperti comunità, famiglia di famiglie che insieme si facevano coraggio, resistevano, pregavano per tutti coloro che operavano in prima linea e per le persone direttamente coinvolte. Ecco perché da molti pulpiti religiosi e laici si continuava a dire: dopo questa esperienza, "niente sarà come prima!". "Nella sofferenza, scrive Dostoevskij in Delitto e Castigo, la verità si fa più chiara".
"Ma l'uomo – si legge nel salmo 49 al versetto 21.

Sono bastati alcuni mesi del periodo estivo, quando la curva dei contagi sembrava "miracolosamente" in rapida discesa, a farci riprendere le nostre abitudini come se non fosse accaduto nulla, come se nulla più potesse accaderci, poi… è arrivata la seconda ondata. Mentre i cosiddetti "negazionisti" continuano a fare da sponda alla "corrente minimalista", sostenendo che il contagio è una falsità, o che venga abnormemente amplificato dai media e che molti dei decessi riguardano anziani ultraottantenni, ancora una parte di italiani continua a vivere come se il peggio sia ormai alle nostre spalle e che tutto è felicemente tornato come prima! Rattrista il fatto che l'iniziale solidarietà mostrata nei confronti di tutto il personale sanitario e la fratellanza espressa con tante manifestazioni spesso spontanee, oggi si sono rarefatte. In qualche situazione il personale sanitario ha dovuto difendersi da atteggiamenti aggressivi nei loro confronti, accusati della disorganizzazione di alcuni interventi non causata da loro. Si sono ripetute scene di violenza nei Pronto soccorso, manifestazioni contro la chiusura di alcune attività produttive, distruzione di negozi da parte di alcune frange di contestatori il cui unico scopo è creare disordine e confusione. Ma anche molta gente, dimenticando il dramma vissuto nella prima ondata di epidemia, oggi sembra attendere con insensata indifferenza la fine di questa ulteriore fase di emergenza, e si prepari a festeggiare Natale e Capodanno come negli anni passati, sicura che i vaccini risolveranno subito tutti i problemi. Che importa se la sirena delle ambulanze, che percorrono ad alta velocità le strade delle nostre città, non ci coinvolge più emotivamente come prima? Può ancora impressionarci il quotidiano bollettino con alcune centinaia di nuovi decessi, che si aggiungono inesorabilmente a quelli della prima ondata? Le statistiche attestano che dopo la prima ondata di pandemia, è tornata a Messa solo la metà dei fedeli e che i ragazzi, come i giovani, nella maggior parte delle nostre celebrazioni sono scomparsi, ma capaci di assieparsi a decine e senza molti riguardi in varie parti della città. C'è qualcuno capace di decodificare tali contraddizioni?

Per queste ragioni ci sembra opportuno e significativo il "Messaggio alle comunità cristiane in tempo di pandemia" dei Vescovi italiani che, dopo aver espresso "il desiderio di rivolgere a tutti gli italiani una parola di speranza", in "questo tempo difficile", auspicano che sia anche "un tempo di preghiera, di fiducia, di abbandono". Un tempo in cui siamo chiamati come cristiani "a testimoniare la Resurrezione", "a dare ragione della speranza che è in noi" (cfr. 1 Pt. 3,15-16), mentre le comunità "stanno dando prova di un eccezionale risveglio di creatività, di nuove forme di annuncio anche attraverso il mondo digitale", come anche "ad azioni caritative e assistenziali più rispondenti alle povertà di ogni tipo". Stiamo vivendo, secondo i Vescovi, anche "un tempo di possibile rinascita sociale", un tempo per rinnovare il nostro impegno a favore della società lì dove ognuno di noi è chiamato a operare "senza trascurare piccoli ma significativi gesti di amore, perché dalla Carità passa la prima e vera testimonianza del Vangelo", è il vero tesoro che non perisce e che deriva dalla nostra fede in Cristo Risorto. "Niente rimarrà come prima" solo se in questi tempi difficili usciremo fuori dal nostro individualismo e apriremo il nostro cuore alla presenza dell'Altro e degli altri.