"Nell’umiltà…l’Amore": terza lectio divina per i giovani della Diocesi
La riflessione del vescovo mons. Luigi Mansi in occasione del terzo appuntamento per la Quaresima 2020
venerdì 3 aprile 2020
10.24
Il vescovo della Diocesi di Andria, mons. Luigi Mansi, nel giorno del IV anniversario del suo ministero episcopale ad Andria, condivide la terza riflessione della lectio divina organizzata per i giovani in occasione della Quaresima 2020. Il terzo appuntamento con l'iniziativa organizzata dalla Pastorale Giovanile era in programma questa sera nella Chiesa Cattedrale di Andria, ma rinviato come i precedenti per l'emergenza Coronavirus. Di seguito il brano del Vangelo di Luca e la riflessione del vescovo Mansi, a cui rivolgiamo il nostro più affettuoso augurio e ringraziamento.
Luca 18, 9 - 14
Disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l'altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore. Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell'altro, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato».
LECTIO
Ancora una parabola, ormai abbiamo una certa familiarità con questo modo di parlare che usava Gesù per dare insegnamenti importanti. Questa volta l'evangelista Luca tiene a precisare chi sono i destinatari immediati della parabola: "alcuni che presumevano di essere giusti e disprezzavano gli altri". Non sarebbe molto opportuno correggere un evangelista, ma non penso di esagerare se dico che coloro che si comportano così non sono per niente "alcuni", ma lo siamo un po' tutti, per cui questa parabola è per noi tutti. Nessuno si senta fuori. Proviamo, perciò, a meditarla insieme, mentre la nostra Quaresima avanza a grandi passi verso la Pasqua.
Dunque Gesù ci racconta che due "uomini" salirono al tempio a pregare. Ambedue sentono il bisogno, il desiderio di pregare, di mettersi alla presenza di Dio, e questo non è un male, anzi! Ma l'evangelista precisa subito: "uno era fariseo e l'altro pubblicano". Ricordiamo, a riguardo dei farisei, quanto ci siamo detti nelle volte precedenti: erano persone "per bene", in genere molto devote, osservanti della legge di Mosè, persone che godevano di una grande stima popolare, molto elevata, quasi una venerazione, talvolta sfociava in invidia. Ma spesso si trattava di una osservanza ostentata in maniera presuntuosa davanti a tutti, per far mostra di sé, per ottenere ammirazione e stima da parte del popolo. L'intenzione, dunque, era quella di mettersi in mostra, non di pregare ed affidarsi a Dio.
In altra parte del Vangelo Gesù descrive in maniera abbastanza analitica il comportamento di queste persone. È l'evangelista Matteo che ci riferisce alcune parole riferite a gente di questo tipo. Gesù, senza giri di parole, li chiama "ipocriti": "Legano fardelli pesanti e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli nemmeno con un dito", "Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente". E ancora: "nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze amano pregare stando ritti, per essere visti dalla gente". È proprio quello che fa il fariseo della nostra parabola di oggi. Infatti, stando al nostro racconto, che ci viene da Luca, Gesù precisa che il fariseo della parabola pregava "tra sé". Cioè la sua preghiera non era un dialogo con Dio, come dovrebbe essere la preghiera, ma "tra sé", parlava per conto proprio, non aveva per niente l'idea che in quel momento aveva un interlocutore, Dio, a cui rivolgersi. E dunque la sua preghiera era un vero e proprio guardarsi allo specchio, per fare atto di autocompiacimento, di autoesaltazione, per dire a se stesso quanto era buono e bravo, sicuro che Dio stesse al suo gioco. Tanto è vero che nella sua preghiera, invece di sottomettersi a Dio e di chiedere aiuto per la sua vita egli fa una affermazione di una estrema gravità: "Ti ringrazio perché non sono come tutti gli altri uomini". Lui proclama con incredibile sicurezza e, lasciatemi dire: sfrontatezza, davanti a Dio la sua convinzione di essere migliore degli altri.
Cari amici, diciamoci con almeno una briciola di coraggiosa autocritica: Non è forse vero che questo noi lo pensiamo un po' tutti? Chi di noi non ha pensato almeno qualche volta, di essere migliore degli altri? Chi di noi non si è messo talvolta a giudicare qualche nostro fratello che, per l'idea che si ha di lui in maniera pubblica, è una persona cattiva, malvagia? Quante volte ci siamo sentiti fortunati perché non siamo come "certa gente"? E dunque questo fariseo della parabola, se è vero che, per le cose che dice "tra sé", ci diventa subito antipatico, non è meno vero, che in lui ci dobbiamo oggi con umiltà riconoscere un po' tutti. Solo così la parola del vangelo, che – non dimentichiamo – è parola del Signore diventa via di salvezza per noi. L'elenco che fa il fariseo della parabola enumera in maniera sommaria tutte le situazioni di peccato più comuni e diffuse: "ladri, ingiusti, adùlteri". Ma il vertice della ipocrisia viene toccato dal fariseo nel momento in cui addirittura si mette a confronto con tono di disprezzo con il pubblicano che, anche lui. sta pregando nel tempio in quel momento.
La preghiera del fariseo prosegue mettendo in fila tutte le opere che lui compie a dimostrazione del fatto che lui è una persona buona e santa: "Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo", insomma: preghiere e offerte al tempio, come se la vita di fede si possa ridurre a questo. Quante volte succede anche oggi che persone di dubbia moralità sono disposte a fare anche generose offerte per lo splendore delle immagini sacre e del tempio, ma poi vivono situazione di cruda ingiustizia nella gestione dei beni. Quante volte…l'abbiamo pensato anche noi? Insomma, si tratta di una santità pensata solo come relazione al tempio e a usanze rituali di tradizione. Emerge la convinzione che basta onorare Dio con pratiche cultuali e magari anche con generose offerte al tempio e tanto basta per sentirci persone sante che hanno perciò diritto alla protezione di Dio?
Questo è ancor di più testimoniato dal particolare del digiuno. Infatti le norme del tempo prescrivevano il digiuno una volta la settimana. Lui, di sua spontanea volontà, lo fa due volte, quindi si sente ancora più sicuro di essere una persona santa. Completamente assente, invece, ogni riferimento alla relazione con gli altri, che, è vissuta solo come confronto per affermare in maniera supponente la propria superiorità. E la cosa più assurda è che egli ringrazia il Signore di tutto ciò. Cioè lui non avverte per niente alcuno scrupolo per il fatto che sta giudicando gli altri e il suo modo di vivere sia contro la legge, anzi! Eppure ci tocca ricordare che, anche volendo restare ancorati all'Antico Testamento, le tavole della legge sono due e se la prima intende regolare i rapporti con Dio, la seconda intendere mettere un argine ad ogni forma di egoismo umano attraverso le mille forme che assume il peccato nella relazione con gli altri.
La parabola, così, passa a descrivere con poche ed essenziali battute il comportamento del pubblicano. Già la parola usata dice tutto: era un "pubblicano", cioè una persona che nella considerazione pubblica era un peccatore, una persona dedita al male, e perciò pericolosa, da non prendere assolutamente come esempio, anzi da scansare, senza se e senza ma. Eppure Gesù proprio con i pubblicani ha avuto sempre un atteggiamento di attenzione e di provocatorio rispetto. Ricordiamo in proposito che tra i primi chiamati a seguirlo c'è Matteo, che era un esattore delle tasse e dunque un pubblicano. E che dopo averlo chiamato Gesù si ferma a pranzo da lui, accogliendo il suo invito e sedendosi a mensa circondato dagli amici di Matteo, che erano tutti come lui. E questo aveva suscitato la stizzita osservazione che appunto i farisei fecero ai discepoli su Gesù: "È andato a mangiare a casa di un peccatore". Dunque Gesù ci dice che questo pubblicano, nonostante quello che è, va anche lui al tempio ma, precisa il racconto, a differenza del fariseo, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto. E chiedeva perdono"
Poche battute bastano per farci diventare subito simpatico questo pubblicano. Sarà pure un delinquente, ma alla presenza di Dio riconosce con coraggio quello che è e ne chiede umilmente pietà e misericordia. Infatti la preghiera che egli ripete non è elaborata e "studiata" come quella del fariseo, ma è immediata, realistica, semplice, soprattutto umile: "O Dio, abbi pietà di me peccatore". Questo "peccatore" consapevole della sua condizione che riconosce nella verità, sente la vergogna di quello che è e perciò si ferma a distanza e non osa nemmeno alzare gli occhi al cielo. Sa di non aver nulla da esibire e nulla da pretendere come un diritto, ma tutto solo da chiedere, senza pretese.
Gesù, chiuso il racconto, commenta con lucidità, affermando che la preghiera del pubblicano fu gradita al Signore ed egli tornò a casa sua "giustificato". Ma subito aggiunge: "a differenza dell'altro". Cioè la preghiera del fariseo non solo non fu gradita al Signore, ma addirittura lo rese "colpevole" davanti a Dio, tanto che non tornò giustificato a casa, ma in una condizione di peccato. Eh sì, perché lui nella preghiera aveva preteso di ostentare davanti a Dio la sua presunta condizione di "perfezione" e soprattutto aveva disprezzato il pubblicano, facendosi vanto di non essere come lui. Questo modo di pregare e di sentirsi davanti a Dio è imperdonabile, a meno che non intervenga un reale pentimento. Il tutto sintetizzato con quello che sembra essere solo un detto popolare, ma è una vera e propria regola evangelica di vita: "Chi si esalta sarà umiliato, invece chi si umilia sarà esaltato".
Ed è quello che ci chiede oggi il Signore con questa pagina del Vangelo: umiliarci, riconoscere ogni nostra povertà e fragilità e domandarne perdono, senza mai fare confronti con gli altri. Buona preghiera a tutti, cari Giovani!
Luca 18, 9 - 14
Disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l'altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore. Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell'altro, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato».
LECTIO
Ancora una parabola, ormai abbiamo una certa familiarità con questo modo di parlare che usava Gesù per dare insegnamenti importanti. Questa volta l'evangelista Luca tiene a precisare chi sono i destinatari immediati della parabola: "alcuni che presumevano di essere giusti e disprezzavano gli altri". Non sarebbe molto opportuno correggere un evangelista, ma non penso di esagerare se dico che coloro che si comportano così non sono per niente "alcuni", ma lo siamo un po' tutti, per cui questa parabola è per noi tutti. Nessuno si senta fuori. Proviamo, perciò, a meditarla insieme, mentre la nostra Quaresima avanza a grandi passi verso la Pasqua.
Dunque Gesù ci racconta che due "uomini" salirono al tempio a pregare. Ambedue sentono il bisogno, il desiderio di pregare, di mettersi alla presenza di Dio, e questo non è un male, anzi! Ma l'evangelista precisa subito: "uno era fariseo e l'altro pubblicano". Ricordiamo, a riguardo dei farisei, quanto ci siamo detti nelle volte precedenti: erano persone "per bene", in genere molto devote, osservanti della legge di Mosè, persone che godevano di una grande stima popolare, molto elevata, quasi una venerazione, talvolta sfociava in invidia. Ma spesso si trattava di una osservanza ostentata in maniera presuntuosa davanti a tutti, per far mostra di sé, per ottenere ammirazione e stima da parte del popolo. L'intenzione, dunque, era quella di mettersi in mostra, non di pregare ed affidarsi a Dio.
In altra parte del Vangelo Gesù descrive in maniera abbastanza analitica il comportamento di queste persone. È l'evangelista Matteo che ci riferisce alcune parole riferite a gente di questo tipo. Gesù, senza giri di parole, li chiama "ipocriti": "Legano fardelli pesanti e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli nemmeno con un dito", "Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente". E ancora: "nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze amano pregare stando ritti, per essere visti dalla gente". È proprio quello che fa il fariseo della nostra parabola di oggi. Infatti, stando al nostro racconto, che ci viene da Luca, Gesù precisa che il fariseo della parabola pregava "tra sé". Cioè la sua preghiera non era un dialogo con Dio, come dovrebbe essere la preghiera, ma "tra sé", parlava per conto proprio, non aveva per niente l'idea che in quel momento aveva un interlocutore, Dio, a cui rivolgersi. E dunque la sua preghiera era un vero e proprio guardarsi allo specchio, per fare atto di autocompiacimento, di autoesaltazione, per dire a se stesso quanto era buono e bravo, sicuro che Dio stesse al suo gioco. Tanto è vero che nella sua preghiera, invece di sottomettersi a Dio e di chiedere aiuto per la sua vita egli fa una affermazione di una estrema gravità: "Ti ringrazio perché non sono come tutti gli altri uomini". Lui proclama con incredibile sicurezza e, lasciatemi dire: sfrontatezza, davanti a Dio la sua convinzione di essere migliore degli altri.
Cari amici, diciamoci con almeno una briciola di coraggiosa autocritica: Non è forse vero che questo noi lo pensiamo un po' tutti? Chi di noi non ha pensato almeno qualche volta, di essere migliore degli altri? Chi di noi non si è messo talvolta a giudicare qualche nostro fratello che, per l'idea che si ha di lui in maniera pubblica, è una persona cattiva, malvagia? Quante volte ci siamo sentiti fortunati perché non siamo come "certa gente"? E dunque questo fariseo della parabola, se è vero che, per le cose che dice "tra sé", ci diventa subito antipatico, non è meno vero, che in lui ci dobbiamo oggi con umiltà riconoscere un po' tutti. Solo così la parola del vangelo, che – non dimentichiamo – è parola del Signore diventa via di salvezza per noi. L'elenco che fa il fariseo della parabola enumera in maniera sommaria tutte le situazioni di peccato più comuni e diffuse: "ladri, ingiusti, adùlteri". Ma il vertice della ipocrisia viene toccato dal fariseo nel momento in cui addirittura si mette a confronto con tono di disprezzo con il pubblicano che, anche lui. sta pregando nel tempio in quel momento.
La preghiera del fariseo prosegue mettendo in fila tutte le opere che lui compie a dimostrazione del fatto che lui è una persona buona e santa: "Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo", insomma: preghiere e offerte al tempio, come se la vita di fede si possa ridurre a questo. Quante volte succede anche oggi che persone di dubbia moralità sono disposte a fare anche generose offerte per lo splendore delle immagini sacre e del tempio, ma poi vivono situazione di cruda ingiustizia nella gestione dei beni. Quante volte…l'abbiamo pensato anche noi? Insomma, si tratta di una santità pensata solo come relazione al tempio e a usanze rituali di tradizione. Emerge la convinzione che basta onorare Dio con pratiche cultuali e magari anche con generose offerte al tempio e tanto basta per sentirci persone sante che hanno perciò diritto alla protezione di Dio?
Questo è ancor di più testimoniato dal particolare del digiuno. Infatti le norme del tempo prescrivevano il digiuno una volta la settimana. Lui, di sua spontanea volontà, lo fa due volte, quindi si sente ancora più sicuro di essere una persona santa. Completamente assente, invece, ogni riferimento alla relazione con gli altri, che, è vissuta solo come confronto per affermare in maniera supponente la propria superiorità. E la cosa più assurda è che egli ringrazia il Signore di tutto ciò. Cioè lui non avverte per niente alcuno scrupolo per il fatto che sta giudicando gli altri e il suo modo di vivere sia contro la legge, anzi! Eppure ci tocca ricordare che, anche volendo restare ancorati all'Antico Testamento, le tavole della legge sono due e se la prima intende regolare i rapporti con Dio, la seconda intendere mettere un argine ad ogni forma di egoismo umano attraverso le mille forme che assume il peccato nella relazione con gli altri.
La parabola, così, passa a descrivere con poche ed essenziali battute il comportamento del pubblicano. Già la parola usata dice tutto: era un "pubblicano", cioè una persona che nella considerazione pubblica era un peccatore, una persona dedita al male, e perciò pericolosa, da non prendere assolutamente come esempio, anzi da scansare, senza se e senza ma. Eppure Gesù proprio con i pubblicani ha avuto sempre un atteggiamento di attenzione e di provocatorio rispetto. Ricordiamo in proposito che tra i primi chiamati a seguirlo c'è Matteo, che era un esattore delle tasse e dunque un pubblicano. E che dopo averlo chiamato Gesù si ferma a pranzo da lui, accogliendo il suo invito e sedendosi a mensa circondato dagli amici di Matteo, che erano tutti come lui. E questo aveva suscitato la stizzita osservazione che appunto i farisei fecero ai discepoli su Gesù: "È andato a mangiare a casa di un peccatore". Dunque Gesù ci dice che questo pubblicano, nonostante quello che è, va anche lui al tempio ma, precisa il racconto, a differenza del fariseo, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto. E chiedeva perdono"
Poche battute bastano per farci diventare subito simpatico questo pubblicano. Sarà pure un delinquente, ma alla presenza di Dio riconosce con coraggio quello che è e ne chiede umilmente pietà e misericordia. Infatti la preghiera che egli ripete non è elaborata e "studiata" come quella del fariseo, ma è immediata, realistica, semplice, soprattutto umile: "O Dio, abbi pietà di me peccatore". Questo "peccatore" consapevole della sua condizione che riconosce nella verità, sente la vergogna di quello che è e perciò si ferma a distanza e non osa nemmeno alzare gli occhi al cielo. Sa di non aver nulla da esibire e nulla da pretendere come un diritto, ma tutto solo da chiedere, senza pretese.
Gesù, chiuso il racconto, commenta con lucidità, affermando che la preghiera del pubblicano fu gradita al Signore ed egli tornò a casa sua "giustificato". Ma subito aggiunge: "a differenza dell'altro". Cioè la preghiera del fariseo non solo non fu gradita al Signore, ma addirittura lo rese "colpevole" davanti a Dio, tanto che non tornò giustificato a casa, ma in una condizione di peccato. Eh sì, perché lui nella preghiera aveva preteso di ostentare davanti a Dio la sua presunta condizione di "perfezione" e soprattutto aveva disprezzato il pubblicano, facendosi vanto di non essere come lui. Questo modo di pregare e di sentirsi davanti a Dio è imperdonabile, a meno che non intervenga un reale pentimento. Il tutto sintetizzato con quello che sembra essere solo un detto popolare, ma è una vera e propria regola evangelica di vita: "Chi si esalta sarà umiliato, invece chi si umilia sarà esaltato".
Ed è quello che ci chiede oggi il Signore con questa pagina del Vangelo: umiliarci, riconoscere ogni nostra povertà e fragilità e domandarne perdono, senza mai fare confronti con gli altri. Buona preghiera a tutti, cari Giovani!