L'esercito andriese che "non scende" in campo

Armati con scolapasta in testa, piumone e Netflix: isolati, ma non soli. Storie di chi sceglie di non tornare

martedì 10 marzo 2020 10.17
A cura di Sara Suriano
Tornerà il tempo dei baci ai nostri nonni, degli abbracci ai fratelli, delle (leggere) sbronze con gli amici. Tornerà, ne siamo certi. Ma questo tempo non è oggi.

Oggi prendiamoci il tempo di sentirne la mancanza, di assaporarne il valore. Prendiamoci il tempo per essere quei rivoluzionari che il confronto con le generazioni passate non ci ha mai concesso di essere. Giovanotto… dico a te! Scolapasta in testa, cinti dal piumone, armati di tutti quei libri che sì-poi-lo-leggo e di Netflix, siamo chiamati a combattere una battaglia che si vince nelle trincee, nelle case. Isolati, ma non soli.

Il Decameron 4.0 è arrivato e allora voglio raccontarvi di un giovane esercito andriese che si batte restando immobile; voglio raccontarvi di quelli che hanno deciso "di non scendere" in campo. Anzi, loro sapranno raccontarvela meglio di me questa storia.

È strano vedere la città in cui sono venuta a cercare la velocità vuota, silenziosa, quiescente. Sembra di vivere all'improvviso una vita da pensionati: lunghe giornate in casa (vabbè, in smart working), poche uscite per fare la spesa o per una passeggiata all'aria aperta, appuntamenti imperdibili in tv: l'Eredità, il Tg, un film o una serie. Ogni tanto una cena con due o tre amici. La cosa più bella di tutta questa situazione è sentire la vicinanza, nonostante la distanza fisica. Gli amici che cercano di farsi sentire in qualche modo, le lunghe telefonate, i video e i meme per alleggerire la situazione. Ma soprattutto, i miei nonni che a 80 anni hanno imparato a fare le videochiamate, solo per assicurarsi che io sia veramente in casa. La mia mamma e il mio papà che alternano momenti in cui vorrebbero avermi lì a momenti in cui cercano di tranquillizzarmi, di spiegarmi con decisione e dolcezza che sono nel posto giusto. E tutto questo tempo, che per una che è abituata a perderne tantissimo, a prendere mille tram e passare ore con le cuffie nelle orecchie, con i social sotto le dita, è l'occasione vera: mi sono data l'opportunità di imparare a fare delle cose nuove. Ho iniziato a lavorare a maglia una piccola sciarpa Frankenstein, di una tremenda lana verde. Ho imparato a riattaccarmi bottoni e ricucire pantaloni, ascoltando podcast come se fossero radiodrammi degli anni '50. Nei prossimi giorni, punto a imparare nuove posizioni yoga e a fare le tagliatelle. Insomma, per una Millennial che non vedrà mai la pensione, è un grande regalo poter vivere da pensionata già a 27 anni.
Maria Chiara Pomarico, da Milano

Sono Sabina Pistillo, classe 1999, nata e cresciuta ad Andria fino a qualche mese fa. Sì, perché da quasi un anno, il mio nome è sul citofono di una palazzina, a Milano, vicino ai Navigli. Gli inizi sono stati tragici: costruirsi il proprio spazio in questa metropoli, i propri punti di riferimento, un posto sicuro, è stato difficile. Sono arrivata qui mossa dal desiderio di investire su me stessa, e per farlo ho dovuto lasciare tutto: la mia famiglia, i miei amici e la sicurezza calda e accogliente di casa. Milano, per quanto possa sembrare una savana, mi ha spronata ed accolta nella mia interezza, scrollandomi un po' quel torpore provinciale al punto che per me, ora, sarebbe impensabile abbandonarla. Sì, lo ammetto: ho bisogno della mia famiglia, dei miei genitori, della mia vera casa e della mia amata terra, quella con radici di ulivo salde e profonde. Ma l'amore per tutto questo mi fa desiderare di preservarlo, il modo più efficace è restare qui, responsabilmente. Non è semplice, vorrei che mia madre mi accarezzasse la fronte, che mio padre la baciasse e che mio fratello mi abbracciasse. La parte più sana di me mi ha detto di amare a distanza la parte più fragile di me.
Sabina Pistillo, da Milano

Ad essere completamente onesta riguardo quello che sta succedendo in questi giorni e in particolare quello che è successo sabato sera, mi preme sottolineare il fatto che vivo a Milano dal 2012: per me qui ormai è casa. Mi ha sinceramente stupita la reazione dei molti che si sono riversati in stazione per fuggire da una situazione che a dir la verità qui stiamo vivendo già da settimane. Quello che è successo è un fatto grave e che però ci dice molto dello stato di paura e insicurezza che stiamo vivendo in moltissimi - preoccupazioni che ormai viviamo anche noi qui per i nostri genitori in Puglia. Nella speranza che tutto finisca il prima possibile, questa tragica vicenda potrebbe aiutarci a crescere come comunità e instillare in tutti noi un pizzico in più di empatia e comprensione verso chi quotidianamente è costretto a prendere scelte drastiche di sopravvivenza perché in fuga da gravi situazioni sociali, sanitarie, civili e umane.
Arianna Campanile, da Milano

In questi mesi ci stiamo confrontando con qualcosa che esula dal nostro completo controllo, ma non deve essere una scusa per perdere il controllo di sé stessi. Dovremmo tutti limitare la nostra libertà, che poi si tratta di responsabilità civile, per proteggere i nostri cari e per dare il tempo al sistema sanitario del territorio di poter combattere contro un nemico nuovo e aggressivo. Diamo tregua agli operatori sanitari, fidiamoci del nostro governo e approfittiamo per ricambiare ai nostri genitori e nonni l'amore e il sacrificio che abbiamo comportato.
Arianna Ruta, da Perugia

Avresti mai pensato, nella tua vita, che saresti stato blindato nella città che ti ospita da 7 anni?
In verità, no. Milano è la mia casa, ho trovato una seconda famiglia, tutte le culture del mondo qui convivono armoniosamente o quasi, aperture che in nessun altra città d'Italia mi è mai capitato di vivere, mantenendo però sempre vive le mie radici, senza mai dimenticarle. Oggi un virus ha imposto a tutti noi un cambio di programma, ma soprattutto un cambio di abitudini. Abitudini che non possono essere opzionali, queste sono assolute e imposte! Non c'è Nord o Sud, ci siamo noi, umani ospiti di questo pianeta, che oggi più che mai devono amarsi, senza pescare nelle parti di noi più primitive, l'istinto di sopravvivenza in questo caso è stato più che sciocco farlo risalire dal profondo. Sarebbe bastato, come molti di noi stanno facendo, fermarsi, prendere fiato e pensare. Pensare a tutte le altre persone, che devono restarne fuori da questa storia, tutelandole. Usiamo tutta questa energia che è stata spesa in questi giorni, per amarci e per amare il nostro pianeta, poniamo la stessa determinazione nel salvaguardare la nostra aria, l'acqua e la terra. Milano non si ferma, la Lombardia non si ferma, la Puglia non si ferma, l'Italia non si ferma.
Francesco Pistillo, da Milano

Per ora la situazione a Genova è relativamente tranquilla, quindi gli effetti di questa "pandemia" - come l'ha chiamata qualcuno - ancora non si sentono pesantemente. Tuttavia, anche qui è necessario fare uno sforzo per seguire le indicazioni che gli esperti continuano a fornirci. Il luogo in cui mi sento più sicuro è quello in cui ci sono persone che hanno il "coraggio" di fidarsi di chi ha studiato e dedicato la vita ad un determinato ambito. Di chi ne sa. Questo vale in generale, ma oggi vale soprattutto per i medici e per chi ci guida nell'affrontare la diffusione del virus.
Enrico Zingarelli, da Genova

Alla luce di ciò che stava accadendo già vari giorni prima del decreto dell'8 marzo, scendere non è mai stata una possibilità lontanamente contemplata. Prima di tutto per proteggere i nostri cari e, non per ultimo, per non ostruire un sistema sanitario già notoriamente in affanno. Restar su è stata l'unica opzione che ognuno di noi avrebbe dovuto avere.
Alberto Zingaro, da Milano

In casi di emergenza la prima da fare è mantenere la calma. Bisogna pensare con lucidità alle conseguenze delle nostre azioni. Ho deciso di rimanere qui a Milano per dovere sociale verso le categorie di persone più a rischio e per salvaguardare la salute dei miei cari.
Davide Losapio, da Milano

Sono Francesco, sono di Andria ma vivo e lavoro a Milano. In questi giorni difficili per tutti, mi trovo a lavorare da casa, in smart working, come tutta l'azienda per cui lavoro e, da oggi, tutta la Lombardia. Avrei potuto dirmi Sabato sera: "Prendo un treno e ne approfitto per stare un mese con i miei genitori, sai, non li vedo mai". E invece no. Ho fatto una scelta civica, prima che personale. Ho deciso di restare qui, chiuso in casa, in una manciata di metri quadri a lavorare, per un mese intero. Perché? Perché, dovessi ammalarmi, starei un paio di settimane male, a letto, mi curerei e la mia vita tornerebbe ad essere quella di sempre. Se avessi deciso di scendere ad Andria, invece, ecco l'ipotetico scenario: potrei essere già stato contagiato, ma star benissimo essendo giovane e in salute; potrei contagiare i miei genitori che, avendo più di 60 anni, possono correre dei rischi ben più gravi dei miei. O peggio, potrei contagiare una persona anziana, un vostro nonno, genitore, parente alla vicina alla lontana. E lui potrebbe morire, perché sì, ragazzi. Se hai un sistema immunitario basso o delle malattie gravi in corso, rischi di morire. Quindi, per il bene della mia città di origine, dei miei genitori, delle persone malate e di tutto il mio paese ho deciso di non partire e di restare a Milano. L'obiettivo di tutti è evitare che il contagio si diffonda. Prendendo un treno sabato sera in preda al panico, e affollando le stazioni e i treni, non abbiamo fatto altro che aumentare vertiginosamente le possibilità che il virus si diffonda. Da ultimo, ma non per importanza, i sistemi sanitari del sud non hanno la portata di quelli lombardi. I nostri ospedali non hanno né capienza, né risorse di quelli a cui siamo abituati a rivolgerci mentre siamo a Milano. Dunque facciamolo per tutti. Per le persone a cui vogliamo bene, per quelle che non conosciamo, per le persone più deboli di noi, per il sistema sanitario nazionale. Per una volta, dimostriamo di essere uniti, almeno nella cattiva sorte.
Francesco, da Milano

Francesca Grassitelli, 20 anni, studentessa fuorisede a Torino. Questa mattina sarei dovuta arrivare ad Andria: avevo un autobus prenotato per ieri sera e il desiderio di ritornare a casa dalla mia famiglia e dal mio ragazzo. Torino non è catalogata come zona rossa, fino alla settimana scorsa sembrava esser tutto tranquillo e sotto controllo, ma lo stato di emergenza inizia a farsi sentire anche qui: il numero di contagi cresce esponenzialmente, i reparti degli ospedali con pazienti positivi chiudono, ed i posti in rianimazione e terapia intensiva scarseggiano. E per la prima volta, da quando ha avuto inizio tutto questo, ho paura. Temo per me stessa che, seppur giovane ed in salute, non ho la certezza di non esser stata contagiata, e temo soprattutto per i miei affetti, per i quali rappresenterei un potenziale veicolo. Ho immaginato la mia permanenza giù e lo stato di ansia perenne che avrei provato stando accanto alle persone cui tengo, i sensi di colpa se fossi risultata positiva al test e avessi contagiato queste stesse persone. Ho immaginato che se in Puglia la situazione dovesse aggravarsi, probabilmente il sistema sanitario non riuscirebbe a fronteggiarla adeguatamente e dunque non tutti potrebbero beneficiare delle cure necessarie. E se ciò capitasse ai miei genitori? Per questo ho deciso di non partire più, di aspettare che la situazione migliori, col cuore pesante ma cosciente del fatto che l'unico vero modo per stare accanto alla mia famiglia in questo momento sia restar qui e tutelarmi, piuttosto che tornare a casa e mettere a rischio la salute di quella parte più debole deinostri cari e della nostra Italia.
Francesca Grassitelli, da Torino

Tornerà il tempo in cui potremo riabbracciarci, ma non è oggi. "Andrà tutto bene" si legge sui post-it appiccicati sui muri per l'Italia. Ed è un'ideologia, non una certezza. Ma quando questo accadrà, saremo in grado di comprendere chi fugge per salvarsi senza colpevolizzarlo, sapremo che l'Italia non è fatta per le secessioni. Sapremo che casa è sempre casa. E queste consapevolezze avranno l'odore dell'Amuchina.
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